RIFLETTIAMO...   

 
LA MONTAGNA PER LA VITA
Riflessioni sulla possibilità di morte in montagna
 


Cari amici,
di fronte al dolore causato dalle ennesime tragedie della montagna - una il mese scorso sul Pilone Centrale del Freney, nel Gruppo del Monte Bianco, che ha spezzato la vita di Marco Anghileri, l'altra del 18 aprile scorso, quando una valanga ha spazzato via 16 sherpa, mentre attrezzavano la via di salita all’inizio dell’Ice Fall sull'Everest - ho sentito rabbioso il bisogno di alzare ancora di più la voce. Sarà che ho già visto troppo dolore, sarà che non concepisco più che un ambiente, dove si va per Vivere con la “V” maiuscola, diventi troppo di frequente terreno di morte. Per questo ho scritto alcune riflessioni che desidero condividere con tutti voi, con la speranza di poter iniziare insieme un percorso che potrebbe finalmente portare a risvolti positivi. Vi chiedo quindi di seguirmi e di riflettere su quanto dirò, perché saranno le vostre idee e osservazioni a dare maggior forza a questo intento. Lo faccio nella speranza che la mia voce, flebile di per sé, assieme a quella di tante altre diventi voce forte per affrontare il nostro alpinismo in termini di responsabilità e di rispetto della vita, che non è da considerare tutta e soltanto nostra. Se saremo in tanti, credo che faremo veramente un buon lavoro.

 

Montagna come mezzo

Comincio col dire che la montagna è qualcosa di meraviglioso, in grado di offrire all’uomo la possibilità di soddisfare importanti bisogni legati alla sua natura:
- Bisogno di avventura.
- Bisogno di lotta, che si porta dentro fin dalle più lontane origini.
- Bisogno di libertà, che tanto manca nella vita odierna.
- Bisogno di evasione, di pace e di silenzio, di rilassarsi, di gustare la bellezza e le emozioni.
- Bisogno di ricerca per dare senso alla propria vita, ricerca del Sublime e di spiritualità.
O, ancora, bisogno di autostima.
Oppure, di migliorarsi, di innalzare i propri limiti, di superare gli altri con il rischio di cadere nell’ambizione!

L’ambizione è una caratteristica che troviamo in particolare nella stragrande maggioranza degli alpinisti e non è necessariamente un male, perché è il motore che fa crescere le cose, che spinge a oltrepassare i limiti, che porta in alto. Nell’alpinismo come nello sport, nel lavoro, nella ricerca scientifica e tecnologica, nell’arte e nella politica. Persino in campo sociale, credo. La differenza sta nel fatto che nell’alpinismo l'ambizione può causare gravi rischi, perché, se si osa troppo, si corrono dei rischi che possono portare anche alla morte, cosa che purtroppo succede piuttosto spesso.

Quindi si va in montagna in cerca di benefici e a volte si muore, come dire che la montagna, che tanto dà, spesso prende. Forse perché la trasformiamo troppo spesso in mezzo?


Chi muore?

Muore sia chi non è ambizioso, sia i meno esperti, sia i più forti e preparati, perché tutti siamo esposti ai rischi.

Gli escursionisti e gli alpinisti poco esperti, quando affrontano difficoltà per le quali non sono preparati, se per es. si trovano a camminare d'inverno su un sentiero percorso d’estate senza problemi. Oppure, quelli che non sono in grado di far fronte a un repentino cambiamento del tempo, o non sanno valutare un pericolo che esula dalla loro esperienza per le particolari condizioni. È già successo che escursionisti siano morti per essere scivolati su un sentiero ghiacciato, o per assideramento. Ed è di questi giorni (marzo 2014) l’incidente sul Palanzone (solo 1436 m!, nel Triangolo Lariano), dove una valanga ha travolto tre escursionisti che camminavano tranquillamente sulla strada poco oltre il rifugio Riella. Una valanga sul Palanzone? Sembra incredibile, ma è successo. Si sono salvate una donna (con una gamba fratturata) e una bambina di quattro anni, perché emergevano dalla massa nevosa, mentre è andata decisamente male per il nonno della bambina, di 62 anni, deceduto qualche giorno dopo per le conseguenze.

Gli alpinisti che si spingono troppo oltre i propri limiti. È nella natura umana cercare di migliorarsi per superarsi, ma bisognerebbe saper sempre conservare un margine di sicurezza. Per esempio, con l'aiuto di una persona esperta, o di una guida.

Gli alpinisti che non sanno rinunciare di fronte all’insorgere di difficoltà improvvise e imprevedibili, Quelli che magari dicono: “Ormai siamo qui, dopo tutte queste ore di macchina, e quando ci si ripresenta un’occasione come questa?”.

Gli alpinisti della cima a tutti i costi.

Gli alpinisti esperti e forti, per aver dato troppa confidenza alla montagna, o per aver abbassato la guardia. Muoiono anche questi. Il mio caro amico Giuliano De Marchi, senza il quale oggi non sarei qui a scrivere queste riflessioni e a cui anche altri alpinisti devono la vita, dopo tante spedizioni sulle montagne più dure dell’Himalaya è morto sull’Antelao, una montagna di casa che conosceva come le sue tasche, durante una banale salita con gli sci. Un altro esempio? Graziano Maffei, fortissimo arrampicatore delle Dolomiti, è morto cadendo in un crepaccio in cima alla Marmolada, al termine dell’impegnativa scalata della via “Don Chisciotte”, sulla verticale parete sud. Anche per Renato Casarotto è stato fatale un crepaccio, dopo che ormai era sceso dal difficile sperone sud ovest del K2, dove era stato impegnato per giorni. E andando ancora più indietro nel tempo c'imbattiamo in un grande dell'alpinismo eroico, Emilio Comici, morto in Vallunga (Valgardena) durante una facile arrampicata.

Gli alpinisti coscienziosi vittima dell’imponderabile. Hermann Buhl, per esempio, è precipitato sul Chogolisa in seguito al cedimento di una cornice, una condizione impossibile da valutare per la troppo scarsa visibilità dovuta alla tormenta; Carlo Pedroni è morto per una pietra che l’ha colpito in fronte, nonostante il casco, durante una scalata sul Pizzo Badile; Cosimo Zappelli, guida alpina valdostana, è morto con un compagno sul Pic Gamba, nel Gruppo del Monte Bianco, probabilmente per una scarica di sassi impossibile da prevedere; Paolo Cavagnetto, istruttore ai corsi guida, è caduto sulla Tour Noire  del Monte Bianco con due allievi, in seguito al distacco di una parte di roccia, o di un masso, con il chiodo del rinvio; Mario Merelli, grande nome dell’Himalaya, è morto a pochi passi dalla vetta dello Scais, una montagna di casa, per un masso instabile che gli ha fatto perdere l’equilibrio. E potrei continuare…

Gli alpinisti ai vertici che, volendo rimanere sul podio guadagnato duramente, o salire ancora di un gradino, si sono trovati quasi costretti a buttarsi su difficoltà sempre più elevate. Mi vengono in mente Jerzy Kukuczka, caduto sulla Sud del Lhotse, Miroslav Sveticik (Slavko), tra i miei alpinisti alla Ovest del Makalu, morto durante una scalata in solitaria sul Gasherbrum IV. Conservo la cartolina che mi aveva mandato da quella spedizione, dove diceva “SOLO”. Thomaz Humar, morto sul Langtang Lirung. Potrei fare altri nomi, ma come esempio credo che bastino questi.

Gli Sherpa e altri portatori d’alta quota, come i Tamang del Nepal, o gli Hunza e Baltì del Karakorum, che offrono il loro supporto alle spedizioni. La totale abnegazione degli Sherpa, in particolare, il loro voler tenere fede all’impegno preso fino in fondo, è stata spesso la causa principale di impressionanti tragedie.

Dove si muore di più?

Vediamo ora dove si muore di più. Facendo le dovute proporzioni - numero di morti rispetto al numero di alpinisti - si muore sicuramente di più sulle grandi montagne dell’Himalaya e del Karakorum, perché l’ambiente è più duro e difficile da interpretare. Lì si parla di vere ecatombi: nel 1937 sul Nanga Parbat, al campo IV un’intera squadra composta da 7 alpinisti e 9 portatori d’alta quota fu cancellata da una valanga di ghiaccio; nel’73 sul Manaslu, 16 persone di una spedizione coreana (5 alpinisti e 11 sherpa) furono travolte e uccise da una valanga; nel 1986 sul K2, morirono ben 13 alpinisti appartenenti a spedizioni diverse. Nel 1989 sull’Everest 5 alpinisti polacchi morirono per una valanga e nel mese di maggio del 1996 altre 5 persone di due spedizioni commerciali non fecero ritorno, dopo che già più di 150 erano morte per non aver saputo resistere al grande richiamo del tetto del mondo. 
Un'idea più chiara dell'ecatombe la fornisce una statistica spagnola stilata 15 anni fa che contava già 600 morti tra Himalaya e Karakorum: da allora quanti altri se ne sono aggiunti? Credo che sia ancora viva nella memoria la tragedia del Manaslu di due anni fa, quando 11 persone furono uccise in un sol colpo da una valanga, e altre scamparono per miracolo! Ed è solo di due giorni fa la tragedia sopra ricordata di altri 16 sherpa, spazzati via da una valanga.

Perché si muore di più sulle grandi montagne?

Si muore per i problemi legati all’alta quota, dove la carenza di ossigeno accresce la fatica, può causare edema polmonare e/o cerebrale e diminuire la lucidità mentale.

- Per le condizioni ambientali molto severe: il freddo che provoca il congelamento degli arti. Quanti ne sono stati vittime! O il vento fortissimo che distrugge le tende, o la tormenta che taglia le gambe e fa perdere l'orientamento, così che in un ambiente tanto vasto non sai più né dove sei, né tanto meno dove puoi finire.

- Per la lunga esposizione, perché la spedizione a un Ottomila può durare anche mesi con continui saliscendi.

- Per la difficoltà di riconoscere le condizioni di pericolo. Gli incidenti maggiori sono stati causati da valanghe, che hanno spazzato via campi interi. Del resto non è facile immaginare cosa c’è al di sopra finché non lo vedi.

- Per non aver saputo dire di no di fronte a un rischio troppo alto. Per raggiungere la cima dell’Annapurna bisogna attraversare un tratto di pendio in cui si è soggetti a un vero tiro al bersaglio, perché i seracchi soprastanti scaricano in continuazione. Ma quando sei lì, a un passo dalla vetta dopo settimane di duro lavoro e pensi che sarà quasi impossibile tornare un’altra volta, diventa difficile rinunciare. Forse proprio per questo l’Annapurna è la montagna che percentualmente conta più morti, più dell’Everest e del K2. La già ricordata statistica spagnola dovrebbe far drizzare i capelli quando ci avverte che il 53% di coloro che vi si sono cimentati non sono tornati. Eppure c’è chi continua ad andarci, perché è una salita irrinunciabile per chi vuole completare la serie dei 14 Ottomila.

- Per il peso dello sponsor? Molti pensano che sia una delle prime cause, ma può capitare per lo più solo ad alpinisti professionisti che con le spedizioni cercano di guadagnare notevoli profitti.


Cosa significa morire?

Fino a questo punto non ho detto niente di nuovo, ma solo fatti che già si conoscevano. Però quanti si sono chiesti veramente che cosa significhi morire in montagna in giovane o relativamente giovane età? Provo a spiegarlo con un esempio che mi ha riguardato direttamente.
Il 10 maggio 1985, verso le dieci del mattino, caddi in un crepaccio. Ero al mio primo tentativo di un 8000, lo Shisha Pangma. Quel giorno eravamo partiti in tre dal campo base avanzato, con l’intento di andare fino in cima. Una quarta persona si sarebbe fermata al campo 2, a 7000 metri, installato nel corso delle salite precedenti.
Quando caddi ero in testa e da solo, perciò nessuno mi vide. Precipitai per quasi 30 metri; è difficile sopravvivere a un volo così, anche perché trascorsero due ore prima che i compagni riuscissero a trovarmi e mi soccorressero. Rimasi per due ore all’interno del crepaccio e per di più ferito seriamente. Qualcuno disse che quel giorno ero nato una seconda volta! Si vede che non era la mia ora.
Avevo 34 anni e fino ad allora avevo avuto una vita bella e interessante, grazie anche al lavoro che mi aveva permesso lunghi soggiorni negli Stati Uniti e che continuava a darmi modo di viaggiare. Ma quanto avrei perso, se fossi morto in quel crepaccio? Ci ho pensato tante volte. Avrei perso la seconda parte della vita, quella che mi ha dato le cose più importanti. Come unirmi a una donna per dare il dono della vita ai miei due figli, che valgono ben più di qualunque cima avessi mai potuto conquistare! Chi ha figli sono certo che capisce… Né avrei potuto scrivere i libri con cui credo di aver saputo trasmettere qualcosa della mia esperienza! Né avrei potuto tenere tante conferenze in tanti luoghi diversi con i molti amici che ho trovato e i nuovi orizzonti che si sono aperti! Né avrei potuto dare un po’ di aiuto ad alcuni fra i tanti bambini poveri del mondo, fare un po’ di bene...
Ecco, cosa avrei perso se fossi morto quel 10 maggio di trent’anni fa! Avrei goduto meno della metà del grande, unico e irripetibile dono che mi era stato affidato. E sarebbe stato un vero peccato, perché l’opportunità di vivere la vita è l’occasione più grande in assoluto e si presenta una sola volta.
Ma morire non significa solo questo; significa anche gettare nel dolore più atroce, se non nella disperazione, le persone che più ci amano. Mio padre, già anziano e malandato, quasi certamente non avrebbe retto e sarebbe morto di crepacuore (mia madre ci aveva già lasciati anni prima).
Un'immagine che mi è sempre davanti agli occhi è quella del papà di Paolo Cavagnetto, caro compagno di spedizione al Lila Peak, nel giorno del suo funerale: non l’avevo mai incontrato prima e in chiesa lo vidi davanti a me, di spalle, in prima fila. Lo ricordo come fosse adesso: era in piedi, alto, con gli occhi fissi sulla bara del figlio, sorretto dalle figlie che lo tenevano a braccetto, una di qua, l’altra di là. Sapevo che non molto tempo prima, un anno o al massimo due, aveva già perso l’altro figlio maschio, caduto nel Gruppo del Monte Bianco. Avevo davanti a me un padre che in montagna aveva perso entrambi i figli maschi, e mi chiedevo cosa sarebbe stato per lui continuare a vivere con un simile dolore…
Ma ricordo bene anche la risposta della mamma di Battistino Bonali, quando per consolarla le dissi: “Tina, devi essere fiera di tuo figlio, è un eroe per tutti e guarda cos’ha portato la sua morte! Guarda quanto bene stanno facendo col suo nome quelli del Mato Grosso…”. Rimanendo seria, mi rispose semplicemente: “Avrei preferito mio figlio con niente di tutto quello che ha fatto, ma qui, vivo”. Parole accompagnate dallo stesso dolore che ritrovai ancora in più occasioni: nella mamma di Lorenzo Mazzoleni, morto sul K2; nei genitori di Paolo Crippa, morto con Eliana De Zordo sulla Torre Egger, in Patagonia; nella mamma di Alessandro Chemelli, morto a 23 anni sul Canalone Gervasutti, al Mont Blanc du Tacul, insieme a Dario Bampi. “Comprendo appieno il detto ‘si muore per crepacuore’ – mi aveva scritto -, e se c’è un Dio che mi ascolta chiedo a Lui, per la prima volta, che mi siano risparmiate altre sofferenze, almeno per il momento, perché non avrei la forza di portarle”. E ancora il dolore di genitori, mogli, fratelli, sorelle, amici, che contattai quando iniziai ad alzare la voce contro la morte in montagna, quando scrissi il libro “Il paradiso può aspettare”. Ma non ho mai parlato con i bambini, con i giovani figli che hanno perso il papà in montagna. Non l’ho mai fatto, ma vedendo l’amore dei miei figli per me posso immaginare il loro strazio. E che dire del fatto che in futuro non avranno più un riferimento così importante? Con ciò non intendo criticare le scelte di chi poi ha perso la vita in montagna, perché non posso, né ne ho il diritto. Permettetemi però di dirne le conseguenze.


La morte, un prezzo da accettare?

Di fronte alla morte, più di una volta mi sono sentito ripetere: “Fa parte dell’andare in montagna e bisogna accettarla per i tanti benefici che comunque la montagna dà”. E pensando alle tantissime persone che trovano grande soddisfazione e gioia nell’andare in montagna, come non condividere un’affermazione del genere? Ma la questione è un’altra: non si tratta di togliere l’uomo dalla montagna, perché a quel punto bisognerebbe toglierlo anche dalla strada, e l’uomo non è fatto per stare sotto una campana di vetro. E nemmeno si può vietare la montagna più dura. Lo dico perché so cosa significhi sentire quel bisogno: è come una luce che acceca, ma che allo stesso tempo permette di vivere momenti ed esperienze che rendono più ricca la vita. E allora credo che si possa accettare la morte in montagna, se avviene in modo del tutto accidentale, o per un errore umano (chi non sbaglia mai?), purché si sia fatto tutto il possibile per scongiurarla, evitando la negligenza, la superficialità, la presunzione, la troppa confidenza. Quindi mettiamola così: LA ‘PELLE’ A TUTTI I COSTI, E NON LA CIMA A TUTTI I COSTI!

 

Evitarla per se stessi

Nel momento in cui mi metto in autostrada so di correre dei rischi. Ma un conto è se vado a 120 all’ora, un altro se lancio la macchina a 200, e un altro ancora, se in ogni situazione insisto a voler andare a 200 all’ora. Riferendomi chiaramente a condizioni uguali di ottima viabilità, il problema è chiaro e la risposta semplice: una velocità moderata abbassa il rischio.
Questo criterio vale anche per la montagna: il rischio può trovarsi anche su un terreno facile, ma più mi inoltro su un terreno difficile, più il rischio è elevato; e più insisto a stare sul difficile, più sono in pericolo. Però in montagna le cose non sono così semplici, perché le variabili sono molte, e se certi aspetti sono evidenti, altri, pur molto importanti, sfuggono all'attenzione.
Uno di questi è la rimozione della morte, una caratteristica dell’alpinista che lo porta a nemmeno considerare il fatto di poter morire in montagna (l'hanno accertato gli psicologi), nemmeno quando è toccato da vicino, come dalla morte di un compagno, nemmeno dall’evidenza che muoiono anche quelli più forti e più preparati di lui. Eppure, la morte è la compagna della nostra vita dal giorno in cui siamo nati. Credo che aiuterebbe farcela amica e rivolgersi a lei nei momenti di pericolo per chiederle consiglio.
Un altro aspetto è quello che chiamo ‘la montagna che sta dentro’. Se ci pensiamo, ci accorgiamo che scalare fisicamente una montagna è anzitutto scalare la nostra montagna interiore, perché l’esigenza, il bisogno di salire nasce dal nostro io profondo. Quindi penso che ognuno abbia la propria montagna, più o meno facile, più o meno difficile a seconda del proprio ‘Io’, che determina la scelta. Ci sarà perciò chi si accontenta di una semplice escursione, chi di una salita un po’ più impegnativa, chi di una via di VI grado, o chi ha bisogno di una scalata all’adrenalina. Un fatto di fortuna o di sfortuna? Sì, perché trovi la pace quando raggiungi la tua cima, e quindi c’è chi ci arriva più facilmente e chi deve lottare duramente, facendo i conti anche con un ambiente ostile. Dunque, una strada senza via d’uscita? Sembrerebbe, ma l’esperienza personale mi dice che non è così, perché oltre alla scalata vera e propria ci sono altri mezzi che aiutano ad arrivare su questa cima. La mia cima fu piuttosto dura, ma non durissima, e cominciai a sentirla vicina nel momento in cui non ebbi più bisogno di sfide, quando iniziò ad affievolirsi la luce accecante che prima mi attirava senza scampo verso l’alto. Ma per raggiungerla mi ci vollero altri aiuti, come l’arrivo dei figli, l’interesse e la passione crescente per la scrittura, la maturità che avanzava, la maggior sicurezza in me stesso. Purtroppo anche la perdita di amici cari, caduti in montagna, e quella di tanti alpinisti forti che avevo conosciuto.
Un altro aspetto ancora, troppo spesso trascurato, è la spinta dal basso, di chi ti segue, di chi sogna con le tue imprese, che ti acclama alla fine di una salita riservata a pochi, che ti batte le mani nelle conferenze, che fa le ore piccole per seguirti in diretta su Internet. In altre parole, chi vede in te un riferimento importante e che farà di te un eroe nel momento della tua morte. Magra consolazione. Bisognerebbe dunque chiedersi quanto il pubblico condiziona, o addirittura determina, le nostre scelte e magari chiedergli di essere più obiettivo e di segnalare senza timore gli errori. Invece, se uno perde la vita magari per aver osato troppo, la disapprovazione si manifesta solo con timidi sussurri, per non infierire su chi è morto e non ferir di più chi già sta soffrendo.

Ho messo in luce solo alcuni aspetti che generalmente sfuggono alla nostra attenzione, ma ce ne sono altri, più o meno noti, e ragionarci a fondo ci aiuterà a scegliere.


Aiutare ad evitare la morte

Credo che molti alpinisti, soprattutto quelli che si rivolgono ai traguardi più ambiziosi, nemmeno vogliono sentire parlare della morte, forse anche per non far vacillare il loro entusiasmo, le loro convinzioni. E allora dovremmo essere noi, papà, mamme, mogli, amici, bambini a frenarne l'esuberanza. Pensate a un figlioletto che si presenta al papà dicendo: “Papà, se proprio devi andare, vai, ma ricordati che ci sono anch’io, che io non posso stare senza te”.
Sì, dobbiamo farlo, per tutti quelli che ci stanno a cuore, per il bene loro e nostro.
Pochi mesi fa ho pubblicato il mio nuovo libro, “La farfalla sul ghiacciaio”, dove sulla quarta di copertina ho voluto scrivere: ‘Un libro per aiutare gli alpinisti a non morire. Un libro dove la montagna si fa vita’. Spero che veramente possa essere d’aiuto, ma spero anche di vedere nascere sempre più, pur tra libri che parlano di grandi imprese, altri inneggianti alla bellezza della vita.


Il piacere di una montagna diversa

Quand’ero attratto dalle grandi sfide, nemmeno mi accorgevo della montagna che ho scoperto più tardi e mi sono trovato davanti come un dono quando ho raggiunto la cima della mia montagna interiore.
Eppure sono in molti a conoscerla e a cercarla per goderne. È la montagna che attira per la sua bellezza, che offre incredibili emozioni con gli splendidi scenari offerti dalle vette; con i colori dolci dell’aurora; con le albe che annunciano il nuovo giorno; con i tramonti che incendiano il cielo; con il fiore che trovi nel luogo più impensato; con la sorgente d’acqua freschissima incontrata sul cammino; con l'incontro casuale o cercato con un animale che libero vive lassù indisturbato, con un’aquila che si libra nell'aria da una cima all’altra senza un battito di ali, con la luna che si alza a tenerci compagnia, con le stelle che brillano nel cielo nero...
È la montagna che con il vento ci scuote senza impensierirci; che ci sprona alla fatica e che poi ci fa apprezzare la stanchezza, perché la stanchezza distende la mente e fa stare bene, aiutandoci il giorno dopo ad affrontare con più slancio la nuova giornata di lavoro nella vita quotidiana.
È la montagna che con il suo silenzio e la sua solitudine ci aiuta a guardarci dentro e a interrogarci, che ci invita a staccarci dalla terra per cercare nella profondità del cielo una risposta ai perché della vita, che ci riconduce alla speranza di Qualcosa che va oltre la vita, senza peraltro chiederci di rischiare, permettendoci di tornare a casa per condividere la gioia con chi ci vuole bene. È la Grande Madre che ci vuole bene.
Come me un tempo, credo che molti alpinisti non abbiano ancora gli occhi per vedere questa montagna e allora è bene dire loro che c’è e che la troveranno ad aspettarli nel giorno in cui avranno raggiunto la loro cima. Saperlo potrebbe aiutarli ad affrontare con più responsabilità le loro sfide.

 

Conclusioni

A queste riflessioni inizialmente mi aveva spinto il pensiero di trovare il modo per aiutare chi va in montagna a non morire. Ora credo di poter dire che la cosa migliore, e forse unica, è parlare della possibilità di morire in montagna, sempre, in ogni momento, magari martellando, senza attendere l’occasione, perché per qualcuno potrebbe essere troppo tardi. In queste righe credo di aver detto abbastanza per incominciare e, siccome da cosa nasce cosa, sono certo che da voi arriveranno altri spunti, altre idee che ci aiuteranno a Vivere veramente la montagna.


Oreste Forno (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

 

 

 

RISCONTRI

 

 

Pareri, osservazioni, idee e impegni segnalati, atti a un discorso costruttivo, verranno inseriti di seguito. Serviranno a far chiarezza su questo non facile argomento e saranno di sicuro aiuto per l’obiettivo prefissato: “Aiutare chi va in montagna a trarre dal suo meraviglioso ambiente i migliori benefici”.

 

17 febbraio 2014. Stephanie Frigiere muore travolta da valanga mentre si appresta alla salita di una cascata di ghiaccio, in Valsavarenche

9 marzo 2014. Edoardo Binda, di 63 anni, muore in seguito al travolgimento da valanga sul monte Palanzone, nel Triangolo Lariano.

14 marzo 2014. Marco Anghileri, 41 anni, tra i più forti alpinisti del momento, muore nel tentativo della prima ripetizione invernale della via ‘Jori Bardill’, sul Pilone Centrale del Freney (Monte Bianco).

 

Ciao Oreste. 

Grazie per il tuo contributo. L'ho pubblicato ora su MOUNTAINBLOG (http://www.mountainblog.it)

Buona giornata!

Simonetta Quirtano.

 

Ciao Oreste, bene grazie. Ho letto – non ancora in maniera attenta -, ma ho letto: sfondi una porta aperta. Cercherò di darti una mano a divulgarla, magari anche su Orobie o L’eco. Potremmo cominciare a pubblicarla sotto forma di lettera su Orobie, però mi servirebbe una versione decisamente stringata, anzi stringatissima…fammi sapere. Un abbraccio.

Emanuele Falchetti.

 

Caro Oreste,

le tue riflessioni sul morire in montagna mi sono giunte il venerdì santo, mentre si spargeva la notizia della tragedia accaduta sull’Ice Fall dell’Everest (subito seguita da oscene interpretazioni: “un normale incidente di lavoro”…): un clima lugubremente “intonato”. Uno dei pregi principali che trovo nelle tue parole, oltre al più che lodevole desiderio di cercare condivisione e confronto, è quello di evidenziare la pluralità degli aspetti in gioco e le ricadute differenti su ogni persona. Ognuno ha un approccio diverso con la montagna, con la vita e con la morte e, sebbene sia giusto e importante cogliere delle linee orientative comuni e globali, la storia e le motivazioni di ognuno sono “proprie”. Naturalmente concordo con te sull’importanza che il portare a casa la pelle è la dimensione fondamentale da avere presente. Eppure… Mi viene da dire che anch’io, in gioventù, mi sono innamorato della montagna e spesso ho misurato la passione per qualcuno o qualcos’altro proprio a partire da quanto intuito e sperimentato in montagna. È stato un utile confronto talvolta. Ora non lo chiamerei forse più innamoramento ma coinvolgimento globale e appassionato ma la sostanza non cambia molto. E non posso non concordare con te che, una volta raggiunta la maturità, cambia radicalmente la scala di valori della propria esistenza. A cinquant’anni raggiunti non potrei mai barattare una anche fantastica salita alpinistica con “la vita tout court”. Ma, il problema – anche se non è corretto definirlo in tal modo – è come far passare certe idee quando l’età è un’altra, quando la morte sembra così distante, quando hai energie da vendere, desiderio di verificarti e mettere a frutto ogni tua potenzialità…

Oggi, in più, sembra che il clima competitivo che esiste nella nostra società faccia da “carburante” a tale volontà di essere sempre “più in là”, sempre più spinto e ardito… Come è possibile evitare di spegnere il corretto desiderio di crescita, di coraggio, di autenticità che caratterizza i giovani (sarebbe interessante se questa prospettiva è condivisa anche dal ramo femminile o se per loro subentrano anche altre dimensioni “importanti”) ponendo accanto il rispetto per la propria esistenza, il valore delle relazioni, la più ampia globalità valoriale dell’esistenza? Non ho risposte da suggerire in modo sicuro. Ricordo di essere cresciuto “alpinisticamente” (di fatto sono solo un modesto escursionista) con il ritornello incessante di mio padre che sosteneva che “l’importante in montagna è saper rinunciare”. Ora sottoscriverei tale espressione, allora mi sembrava caricata di invidia, perché lui non aveva potuto o non poteva più fare quello che facevamo noi più giovani. E per noi era benzina alle nostre aspirazioni!

Operativamente, credo potrebbe risultare efficace far conoscere alpinisti che stimolino e apprezzino tutte le iniziative dei più giovani ma insieme facciano cogliere l’importanza di sapersi fermare in determinate circostanze…. Forse potrebbe essere utile anche evidenziare la ricaduta “personale” dell’esperienza in montagna e non solo quella del riconoscimento e dell’apprezzamento che si riceve dall’esterno, dagli altri che lodano la tua impresa: le cose più importanti della vita sono anche quelle più intime…

Sono solo riflessioni un po’ peregrine. Ma ti ringrazio per aver condiviso le tue.

Un caro saluto.

Andrea

 

Gentile Oreste Forno,

ho saccheggiato il suo appello, distribuitoci ieri alla confstampa del FilmFestival. Le mando la pagina del giornale, uscita oggi.

Cordialmente,

paolo ghezzi

  

Gent.le Sig. Forno,

 mi chiamo Filippo e sono un ragazzo di trent'anni. Non abbiamo mai avuto l'opportunità di conoscerci di persona, anzi, se devo essere sincero, finora la conoscevo solo "di fama" e non avevo mai avuto occasione di leggere qualche suo libro o anche solo qualche sua riga. Attirato dal titolo del post apparso quest'oggi su Mountainblog mi sono fermato per la prima volta su alcune sue riflessioni. All'inizio, dopo aver letto l'incipit devo ammettere che ho pensato: "Ecco, ancora un'altra riflessione sulla morte di Marco Anghileri... Certe cose sarebbero da tenersi per sé, non capisco questo bisogno di esternare..." Poi però ho tenuto duro, ho continuato la lettura e ne sono rimasto affascinato! Le scrivo quindi per farle i miei più sinceri complimenti. Ha la curiosità di sapere quale sia stato il mio pensiero seguente (e attuale)? "Finalmente qualcuno che dice la verità, questa sconosciuta..."

Ho tanti amici che vanno in montagna, anch'io ci vado da una vita e credo proprio che quel senso che lei cerca di esprimere oggigiorno si sia un po' perso. Non esistono solo le grandi pareti estreme, sfide impossibili, "emozioni forti". Sembra che ormai ci si avvicini alla montagna solo per soddisfare questo nostro ego smisurato. Però, esiste anche una montagna che dà tante altre grandi soddisfazioni (uguali? non so, io credo di sì...), ma soprattutto ci permettere di viverne in futuro molte altre. Chi ama la montagna, in ogni sua forma e in ogni suo aspetto, questo deve saperlo!

Il suo grido "La pelle a tutti i costi, non la cima a tutti i costi!" va ripetuto, ripetuto, ripetuto...

Nella mia pur breve vita, ho personalmente "rischiato", diciamo così, due volte: una volta in parete su una via in Grignetta per una scarica di sassi dall'alto che mi ha fatto volare venti metri più in basso e risvegliare in ospedale a Gravedona; e un'altra volta mentre mi trovavo sul confine tra Iran e Turkmenistan. Più volte mi sono chiesto se il mio approccio alla morte sia cambiato dopo due esperienze simili: non capivo se allora ero più giovane e quindi magari più "spensierato", oppure se in realtà con gli anni che passano mi stavo io "rammollendo"... Credo di non aver ancora capito la motivazione, ma ora sono sicuro che questo mio nuovo approccio alla morte, sia giustificato e fondato su basi importanti. Grazie per avermi dato un'ulteriore conferma. Complimenti davvero per la sua franchezza e per aver avuto il coraggio di scrivere certi pensieri: per quel che può valere, ha tutto il mio appoggio! Da oggi avrà un lettore in più...

Cordiali saluti, buona giornata!

Filippo Salvioni.

 

5 aprile 2014. L’escursionista Piero Serenthà, di 77 anni, scompare sul Monte Cornizzolo. Il suo corpo ritrovato il 18 aprile dai volontari del Soccorso Alpino.

 

Ciao Oreste,

ho letto e apprezzato nel mio piccolo il tuo appello agli alpinisti.

Ti segnalo questo inserimento tra i miei trastulli (http://mountcity.wordpress.com/). Può andare?

Buona serata,

Roberto Serafin

 

Drammatico appello di Oreste Forno al festival della montagna: aiutiamo gli alpinisti a non morire!

 

Prendendo spunto dalla recente tragedia sull’Everest (16 sherpa morti sotto una valanga mentre attrezzavano le vie di salita) il TrentoFilmfestival(http://www.trentofestival.it/), rinomata rassegna dedicata alla montagna, lancia in questi giorni un messaggio molto forte: “La montagna è per la vita e non per la morte”. Un concetto che viene ripreso in diverse occasioni in questa edizione del festival, la sessantaduesima. Spiega il presidente Roberto De Martin: “Riprendendo uno slogan che il festival fece proprio negli anni ’70, ‘montagna da salvare, montagna da vivere’, quest’anno diciamo ‘alpinismo da salvare, montagna da vivere’”.

Sull’argomento è molto atteso l’intervento di Oreste Forno (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.), scrittore, fotografo, guardiano di una diga dell’Edison in Valle dei Ratti in Lombardia. Socio accademico del Gruppo italiano scrittori di montagna (GISM), dopo avere guidato importanti spedizioni agli Ottomila ed essere stato tra i primi al mondo a cimentarsi con gli sci su simili montagne, Forno si è dedicato alacremente alla scrittura.

È nella solitudine di questa sua attuale professione di guardiano, tra le scoscese pareti della Valle dei Ratti, che oggi trova la migliore ispirazione per i suoi libri. Il documento da Forno presentato a Trento ha per titolo “La montagna per la vita”. Forno ha visto morire diversi compagni in montagna e a sua volta ha rischiato di perdere la vita a 34 anni precipitando in un crepaccio.

“Di fronte al dolore causato dall’ennesima tragedia che ha avuto come teatro il Pilone Centrale del Freney, nel Gruppo del Monte Bianco”, spiega riferendosi alla tragica morte di Marco Anghileri, “ho sentito un rabbioso bisogno di alzare ancora di più la voce. Sarà che di dolore ne ho già visto troppo, sarà che non concepisco più che un ambiente dove si va per Vivere con la V maiuscola diventi troppo spesso terreno di morte. Per questo ho scritto queste riflessioni che desidero condividere con tutti voi, con la speranza di poter iniziare insieme un percorso che potrebbe finalmente portare a risvolti positivi. Vi chiedo quindi di seguirmi e di riflettere su quanto vi dirò, perché saranno le vostre idee e osservazioni a dare maggior forza a questo intento. Se saremo in tanti, credo che faremo veramente un buon lavoro”.

“Quanti si sono mai chiesti veramente che cosa significhi morire in montagna, a una giovane, o relativamente giovane età?”, si chiede Forno. “Provo a spiegarlo con un esempio che mi riguarda. Il 10 maggio 1985, verso le dieci del mattino, caddi in un crepaccio. Ero al mio primo tentativo di un 8000, loShisha Pangma. Quel giorno eravamo partiti in tre dal campo base avanzato, con l’intento di andare fino in cima. Ci accompagnava una quarta persona che si sarebbe però fermata al campo 2, a 7000 metri, installato nel corso delle salite precedenti.

“Quando caddi ero abbondantemente in testa, perciò nessuno mi vide. Ero precipitato per quasi 30 metri, ed è difficile sopravvivere a un volo così. Anche perché prima che scoprissero l’accaduto e mi tirassero fuori passarono due ore. Due ore all’interno del crepaccio, mezzo rotto. Qualcuno disse che quel giornonacqui una seconda volta. Si vede che non era la mia ora.

“Avevo 34 anni. Fino a quel momento avevo avuto una vita bella e interessante, grazie anche al lavoro che mi aveva permesso lunghi soggiorni negli Stati Uniti e che continuava a darmi modo di viaggiare. Ma quanto avrei perso se fossi morto in quel crepaccio? Ci ho pensato tante volte. Avrei perso la seconda parte della mia vita, quella che mi ha dato le cose più importanti. Come unirmi a una donna per dare il dono della vita ai miei due figli, che valgono ben più di qualunque cima avessi mai potuto fare! Chi ha figli sono certo che capisce… O scrivere quei libri con i quali credo di aver saputo trasmettere qualcosa! O andare da un posto all’altro con le conferenze che mi hanno portato tanti amici e aperto orizzonti nuovi! O aver potuto dare un po’ di aiuto a qualcuno fra i tanti bambini poveri del mondo… Fare un po’ di bene…

“Ecco, allora, che cosa avrei perso se fossi morto quel 10 maggio di trent’anni fa! Avrei sfruttato meno della metà il grande dono, unico e irripetibile che mi era stato dato. E sarebbe stato un vero peccato perché l’opportunità della vita, l’occasione più grande in assoluto, si presenta una volta sola.

Ma morire non significa solo questo. Se fossi morto, mio padre, già anziano e malandato, probabilmente non avrebbe retto e sarebbe morto di crepacuore (mia madre ci aveva già lasciati anni prima). Morire significa anche gettare nel dolore più atroce, se non nella disperazione, le persone che ci amano di più”.

“Pochi mesi fa”, conclude Forno, “sono uscito con un nuovo libro, ‘La farfalla sul ghiacciaio’. Sulla quarta di copertina c’è scritto: ‘Un libro per aiutare gli alpinisti a non morire. Un libro dove la montagna si fa vita.’. Spero veramente possa essere d’aiuto, ma spero anche di vedere nascere sempre più, pur tra libri che parlano di grandi imprese, quelli inneggianti alla bellezza della vita”. Parole da sottoscrivere. E voi, amici alpinisti, che cosa ne pensate?

 

Roberto Serafin.

 

9 aprile 2014. Alessandro Miola, 42 anni, precipita con gli sci in un canalone e muore, sulle Pale di San Martino.

 

 

 

Carissimo. Ho letto con attenzione le tue riflessioni sulla morte in montagna, ambiente che amo in modo totale perché mi  tanto e mi permette di gioire nonostante la fatica e io vorrei girare la tua affermazione "Pelle a tutti i costi e non la cima a tutti i costi" parafrasando un altro tuo libro dicendo "Montagna corsa alla vita e per la vita". Certamente è ciò che si ha come scopo nel frequentare la montagna che alza i limiti del rischio. Li hai elencati benissimo tutti tu e credo fermamente che la "morale" sia quella che viene fuori dal tuo libro "La farfalla sul ghiacciaio" con Marco e Paolo che si sono portati dietro la loro voglia, la loro sfida ma seguendo l'insegnamento di Saverio.Certo è complicato ad alpinisti "famosi" o in gara per qualche record cercare di capire questo ma la vita come dici tu è un bene prezioso e lo si ha una volta sola.... La cima, le cime, sono sempre lì.... si può tentare un'altra volta se i rischi sono oltre le possibilità oggettive o soggettive. Certo è che anche affidarsi a guide ultimamente mi ha fatto riflettere parecchio.....  Mi sembra che molte volte il "dio" denaro faccia la differenza e anche le guide portano clienti in luoghi e situazioni che non sarebbero proprio sicure e recentemente alcuni incidenti si potevano evitare se il primo posto lo aveva la sicurezza e non il profitto.... non voglio criticare gratuitamente ma mi è sembrato che qualche accadimento si poteva evitare. Io sono diventato prudentissimo da quando ho famiglia e figli.... mi informo, chiedo ai rifugisti, alle guide stesse, mi affido al mio istinto e il dietro front è diventato routine.... passo magari anche tra amici e conoscenti come debole ma credo davvero che la vita è troppo bella per rischiarla così.

Non voglio giudicare neppure il Bucth (mi ha colpito e rattirstato la sua morte al bianco) ma credo che in questo caso forse il fato sia stato imponderabile ma secondo me aveva già rischiato molto in fase di allenamento andando su e giù dal Grignone anche in condizione di pericolo marcato e forte facendo passare anche su facebook con foto e resoconti che tutto era comunque possibile e alcuni avendo visto lui "alpinista esperto e conoscitore etc.." che andava anche in condizioni di chiusura dei rifugi, di pericolo valanghe, di ordinanze comunali si sono avventurati rischiando.... Io ci sono andato con mio figlio quando la situazione era abbastanza stabile e più sicura e comunque ancora con una certa apprensione. Davvero non voglio giudicare soprattutto dopo una morte ma secondo me la roulette gli era già girata bene parecchie volte..... non dico che se l'è cercata anzi... ma...... Se penso che in ben due occasioni io sono arrivato solo fino in Pialleral o ai Comolli e ho visto con i miei occhi Mario Panzeri (non il primo pirla) che tornava indietro perché "l'era tropp periculus"..... ho imparato più da questo che da tanti comunicati. Poi è vero che si rischia tutti i giorni anche per strada, al lavoro, sulle scale, durante un temporale...... ma forse il chiedere troppo .... è troppo. Quindi montagna come "Corsa alla vita... anzi alla Vita".... Che bello essere in cima alla Grignetta coi miei figli, dormire in sacco a pelo nel bivacco, godendo del tramonto la sera, del vento che flagellava il bivacco la notte, l'alba del mattino, i camosci sui pendii.... in tutta sicurezza e godendo di quella montagna che ci permette di gioire e non di temere. Di vivere e non di morire. Di tornare a raccontare una salita su una via normale goduta e faticata invece che di qualche canalone o grado di difficoltà superiore .... per cosa poi.....

Scusa, sono stato lunghissimo. Non ho il dono della sintesi perdonami.

Ciao. Un abbraccio. Francesco Jerry Colombo

 

 

Carissimo Oreste, ti scrivo solo ora perché durante le vacanze di Pasqua sono stata in Sicilia, facendo bellissime e facili escursioni a piedi sull'Etna con amici del CAI di Giarre. Ho portato anche mio figlio che ha sette anni, e che si è divertito tantissimo, in un ambiente così diverso da quello dolomitico e pieno di cose nuove da scoprire. Certo, senza di lui avremmo potuto fare giri più impegnativi, arrivare vicino al cratere centrale, ma a che sarebbe valso senza di lui?

Ti ringrazio tantissimo per le riflessioni delle quali mi hai reso partecipe, le diffonderò perché credo siano un punto di partenza importante per risvegliare le coscienze. Se me lo permetti le girerò anche ad Ugo Scortegagna per l'agenda 2015 del Comitato scientifico, il tema è "montagna di emozioni" ed uno degli argomenti è proprio "la sfida e la morte".

Abbiamo perso un giovanissimo socio proprio un paio di settimane fa, Simone Mestriner, scivolato sulle Apuane. Di fronte ai tanti perché e alle domande alle quali non si trova risposta nasce lo sgomento...ti inoltro la mail del nostro neoeletto presidente di sezione, una persona molto sensibile che dopo l'accaduto ha sentito forte il bisogno di scrivere le sue riflessioni. Gli ho inoltrato subito la tua mail, credo l'apprezzerà....un saluto affettuoso.

Alessandra Gregoris.

 

18 aprile 2014.  16 sherpa sono uccisi da una valanga mentre attrezzano sull’Ice Fall la via di salita all’Everest.

 

 

Caro Oreste, che dire? Sfondi una porta spalancata! 

Mi sono permesso di pubblicare le tue riflessioni sulla mia pagina Face book chiedendo ai miei amici di leggere e divulgare.

Ho letto ad alta voce e tante volte un nodo in gola mi stringeva forte e gli occhi più di una volta erano pieni di lacrime. Poi penso anche che ci sia un disegno di Dio. Penso che lui abbia già deciso per noi... Come quella volta che tu sei uscito dal crepaccio vivo...chi ha deciso se non lui?

Ti ringrazio infinitamente

Emanuel Panizza.

 

1 maggio 2014. Lo sci alpinista Enrico Cerri, 33 anni, muore nella salita della Punta Ciamarella, nelle Alpi Graie.

  

Ciao Oreste,

 ho letto le tue "RIFLESSIONI", secondo me non è facile fare capire ai giovani alpinisti il rischio che corrono, in quanto presi dalla foga e dall’adrenalina nel riuscire a conquistare la vetta e tutto il resto, compreso il rischio di morire, passa in secondo piano; è brutto da dire ma secondo me è questo il punto. A volte si dice che il nostro destino è già segnato e potrei essere d’accordo ma a volte il destino lo si può cambiare e ne sono più che convinto. Si può morire anche durante una semplice passeggiata fatta in riva al lago o in una semplice montagna e qui penso che possa essere il destino, magari un masso che si stacca e ti colpisce, una stupida scivolata e questo appunto è il destino, ossia non ci potevi fare niente, chiamiamola anche sfortuna. Il fatto invece di cambiare il destino lo vedo più che altro in salite che vanno sopra lo sforzo umano e dove la natura si può ribellare in pochi secondi, specialmente in alta quota. Quello che dovremmo fare capire non è il fatto di non andare a fare queste spedizioni ma di andare a farle con testa, sapendo che a casa si hanno mamma, papà, moglie, figli, amici ecc, i quali ti rivorrebbero a casa il prima possibile e non dentro ad una casa di legno ma ancora in vita pronti per un abbraccio. In questi casi bisognerebbe sapere rinunciare alla cima quando le condizioni diventano estreme e pericolose, rinunciare potrebbe essere una sconfitta sportiva ma una vittoria per la vita e secondo il mio punto di vista a volte bisognerebbe “avere paura di morire per non morire”. Questo è il mio pensiero e non è facile farlo capire a chi fa le cose con foga e senza testa.

Spero che il tuo messaggio possa arrivare a più persone possibili. Un abbraccio.

Danilo Genovina

 

Caro Oreste, ho trovato la tua e mail, ieri sera, ed oggi mi sono letto la tua riflessione tutta d’un fiato.

Di Anghileri sapevo e ne avevo anche parlato con Massimo Bursi e Matteo Sgrenzaroili, due bravi e attenti soci di Verona. Tutto vero quanto scaturisce dalla tua riflessione. Passerò il testo ad Armando ASTE non è collegato per posta elettronica ), pure con il quale m’ero intrattenuto prima di lasciare Verona. Sai quanto sia sempre stato attento a questa problematica, nutrita di una responsabilità che l’ha sempre accompagnato nella sua attività di punta. Una responsabilità che ha radici nel 2senso” da riconoscere al dono della vita.

Penso che troverai voci non allineate, che partono ad un malinteso senso “libertario”; una “libertà” che è pura esaltazione dell’ego, al di fuori del quale null’altro esiste. E’ la deformazione dello spirito romantico, dello Sturm und Drang, teorizzato nella pratica alpinistica in particolar modo negli ani trenta dalla scuola di Monaco.

Penserei di proporti di ospitare questo tuo contributo su Giovane Montagna. Che ne dici? Tornerò a rimeditarlo. Ne potrebbe scaturire un Forum. Oltre cherileggerci potremmo anche sentirci al telefono. Ti passo le e mail di alcuni amici.

Grazie per avermi fatto partecipe dei tuoi pensieri.

Giovanni Padovani.

  

Caro Oreste, ho ricevuto e letto il tuo scritto sul morire in montagna. L'ho trovato molto denso e pieno di spunti da cui partire per riflettere. Certo che questo è un tema enorme; tanto più, come dici tu stesso, in questa nostra contemporaneità, che rifugge il pensiero della morte come la peste. Se l'essere umano, anche non alpinista, pensasse di più e meglio alla propria morte non saremmo circondati da tanto degrado, esteriore come interiore.

Lo hai mandato a Vinicio Stefanello di Planetmountain o, ancor meglio, a Roberto Mantovani per il suo sito Segnavia54? Se vuoi a quest'ultimo posso passarlo io. E perché non anche ai vari "guru 2.0" come Emilio Previtali? O a Leonardo Bizzaro di Repubblica che, benché lavori alla redazione di Torino, ha però voce in capitolo sull'estensione web del giornale per quanto riguarda i temi legati alla montagna? O ancora, a Valentina D'angella di Montagnatv, che all'indomani della morte di Marco Anghileri ha scritto un bel pezzo sui deliri della rete...

Linda Cottino.

 

4 maggio 2014. Gli sci alpinisti Daniele Vottero Reis (26 anni) e Fabrizio Jacob (36 anni) muoiono per valanga sulle Alpi Marittime (CN). Altri 2 compagni feriti gravemente. 

4 maggio 2014. Luca Pasqualetti muore per caduta sulle Alpi Apuane.

 

Le tue riflessioni sono molto profonde e da me condivise. Credo che possano essere molto  utili per tutti coloro che frequentano la montagna. L'attuale Annuario è già in stampa per cui potrò pubblicarle sul prossimo. Penso che ciò che tu dici non abbia tempo. Un caro saluto.

Enrico Pelucchi. 

 

Caro Amico mio, 

grazie, sicuramente una mano la diamo! La morte di Marco... un grande dolore...  e ti dirò che alle prime notizie frammentarie non abbiamo creduto... Basta dire i commenti, tipo: "Marcoma figurati!!! Non è possibile..., saranno i soliti imbecilli che fanno terrorismo...." e così via, purtroppo però è successo, ed è successo a Marco... Hai ragione bisogna parlarne, bisogna affrontare l'argomento e cercare di aiutare e aiutarci ad evitare altro dolore...

Piera Eumei

 

Ciao!!!!! 

Proprio oggi ho pensato a te........Ho sentito al TG la notizia dell' Everest... Forse sono morti in 14 sherpa......la notizia è passata inosservata in chiusura del telegiornale. Se moriva un italiano era sicuramente una prima pagina. E loro non valgono? Io credo che valgano più di noi!!! E mi dispiace che li mettano così in secondo piano..... Penso alle loro mogli e ai loro figli. E loro lo fanno per vivere! Proprio in questi giorni ho avuto una proposta per una via nuova di misto su una parete vergine nel gruppo del Bernina. Ammetto che è stata dura rinunciare sotto certi punti di vista... Ma non me la sono proprio sentita. Il mio piccolo di 6 mesi mi sorride così tanto che non riesco mai a lasciarlo solo...nemmeno una sera... Di Marco ho visto la foto del suo zaino appeso in parete. Non lo conoscevo ma non riesco a smettere di pensare a sua moglie e ai suoi due figli. Non riesco a trovare risposte. La montagna mi ha dato tanto e non posso negare che è parte della mia vita. Da bambino e adolescente è stata anche ragione di vita. C'era un tempo in cui la mia vita pensavo potesse essere barattata con una prima salita. Ora no. E sono anche stufo di vedere una montagna violentata da tante persone che come scrivi nel tuo libro...fanno salite per dimostrare agli altri quanto sono bravi ancora prima che a loro stessi...

Adesso leggo molto volentieri le tue riflessioni, le diffonderò altrettanto volentieri e ti scriverò ogni mio pensiero mi passerà per la testa.

 Grazie1000 di avermi scritto e di avermi pensato. 

Emanuel Panizza

 

Carissimo, grazie per questa tua lunga e ampia riflessione. Pensa che avrei voluto scriverti proprio in quella occasione, perché tu mi dicessi chi era Marco, se lo conoscevi e lo stimavi, se era un credente. Poi sono stato travolto dalle tante cose da fare e allora, l'ho ricordato con una preghiera e ho soprasseduto.

Ora tu mi richiami lo stesso dramma dell'andare in montagna, che è sempre una sfida con se stessi, dove sembra sia sempre difficile, addirittura quasi impossibile, saper tener conto delle proprie forze, dei propri limiti e di tutte le componenti e difficoltà rappresentate dall'ambiente esterno. Apprezzo molto il tuo scritto perché metti veramente il dito su tutti gli aspetti di cui spesso ci si dimentica, o meglio si trascurano, quasi in preda a un'esaltazione superomisticache rende presuntuosi ed egoisti.

Fammi sapere se ti va bene che io cerchi di pubblicare degli stralci su Il Settimanale della Diocesi e faccia dare il testo a Teleunica (così che potrebbero chiamarti) e a qualche altro giornale.

Piero Melgara

  

 

8 maggio 2014. La scialpinista Elena Ferraris, di 37 anni, muore per caduta sulla Punta di Terrarossa, in Val d'Ossola. 

8 maggio 2014. Lo scialpinista Claud Ricord, di 62 anni, muore per caduta sul Mont Gelàs, in Val Gesso. 

 

Ciao Oreste,

Ho letto le tue riflessioni, concordo pienamente sullo scritto perché sono i miei stessi pensieri quando leggo o sento di incidenti accaduti in montagna- La mia opinione sulla montagna come mezzo è che dovrebbero prevalere, quasi totalmente, i bisogni di pace, silenzio, libertà e divertimento, un mezzo per rilassarsi e lasciar correre i pensieri seguendo le emozioni che si provano in quei posti. Altri bisogni sono per persone che antepongono a tutte queste ragioni, per motivi personali anche condivisibili, come il lavoro, la professione, i riscontri economici e la soddisfazione del proprio ego. Tali motivi però possono portare ad eccessi se non controllati e provocare avversione verso chi ama veramente l'andare in montagna. Ho letto il tuo libro "La farfalla sul ghiacciaio", credo che un sunto dovrebbe essere oggetto di una serata con i giovani che frequentano le scuole di alpinismo, servirebbe, forse, a farli stare in guardia. Certamente i media dovrebbero dare notizie più corrette quando informano i propri lettori, tenendo presente che chi sa di montagna, in percentuale, sono pochini.

Claudio Besana

 

Ciao Orestegiro il materiale ai colleghi delle Cronache.

Laura Guardini.

 

Ciao Oreste,

la tragica scomparsa di Marco Anghileri mi ha lasciato veramente sconcertato. Ma purtroppo, come dici tu, spesso un ambiente dove si va a vivere con la V maiuscola diventa invece terreno di morte. Cercherò senz’altro di diffondere il tuo “verbo”. Mi auguro di rivederti presto.

Un abbraccio.

Pino Brambilla.

 

Gent.mo Oreste, 

Grazie della risposta alla quale non speravo, - dimostra, se ce ne fosse bisogno, la qualità e coerenza dell'uomo. Sopratutto nel rimarcare la posizione di paladino della vita, tema che non può non trovarmi d'accordo in linea di massima, ma del quale ho fatto un distinguo SE si opera con preparazione, coscienza e rispetto di regole fondamentali alla sopravvivenza. Ho avuto la fortuna di non assistere alla morte in montagna, ho avuto i brividi vedendo Marco arrampicare vicino e senza protezioni (in scarpe da trekking), ho assistito invece persone morenti e non anziane in ospedali. Dovremmo invitare anche a non usare l'auto e l'aereo per futili motivi..??

Impossibile convincere i giovani ad evitare un po’ di adrenalina, ne ho visti troppi entusiasti dopo una bella scalata e nessuno avvilito, perché come recitava il grande Aristotele: un'azione volontaria e libera è quella che nasce dall'individuo e non da condizionanti fattori esterni, a condizione che sia predisposta dal soggetto con un'adeguata conoscenza di tutte le circostanze particolari che contornano la scelta: tanto più accurata sarà questa indagine tanto più libera sarà la scelta corrispondente.

Viceversa il frustrato beve, pigia il piede sull'acceleratore, si fa una overdose...e la madre di Battistino avrebbe qualche motivo in più per piangere. Un amico ha perso il figlio per questo motivo (droga) e avrebbe preferito fosse morto qualche anno prima per una rovinosa caduta dalla Nord delle Droites. Gianni e Antonio Rusconi erano considerati dei pazzi per aver intrapreso la stessa strada del fratello più grande morto al Sigaro, ma sono qui a raccontarci che le loro imprese (con buon uso di protezioni) le rifarebbero se fossero ancora giovani.

Caro Oreste, predicare prudenza è d'obbligo, la vita  ha un valore inestimabile, farlo  capire ai giovani è però missione quasi impossibile - la condanna aristotelica parla chiaro - ho arrampicato su stupende vie con Adriano Carnati, Alessio, Giorgio, Eligio e tanti altri ragazzi esuberanti ai quali cercavo di raffreddare gli animi....ma invano, hanno proseguito su difficoltà estreme facendo a meno di me e dei predicozzi.Mi è rimasta la soddisfazione che col passare degli anni sembrano apprezzare ciò che dicevo, magra consolazione, hanno comunque seguito la loro strada com'è giusto che sia - idem per i miei due figli.

Ti auguro maggior fortuna, con stima....

Giovanni Bosisio.

 

 

20 maggio 2014.  Chhanda Gayen, alpinista indiana di 35 anni, muore per valanga sul Kangchenjunga insieme ai suoi due sherpa, Dawa Wangchu, di 28 anni, e Mingma Temba, di 24 anni. 

 

Oreste,

non saprei che commento fare ... voglio solo ricordare, in questo venerdì santo, le famiglie di quei poveri sherpa che si guadagnano onestamente quei pochi dollari per fare un lavoro cosi rischioso ... 

 

Everest, gli sherpa morti in un incidente sul lavoro per il "luna park" delle spedizioni turistiche

La prima denuncia arrivò a fine anni '90 con il celebre libro "Aria sottile": dalle poche cordate alpinistiche alle centinaia di gruppi "trascinati" verso la vetta per compensi esorbitanti. Fino a risse ad alta quota (afp)Più che un incidente alpinistico, è stato un incidente sul lavoro. Dieci, dodici, quattordici, quanti siano gli sherpa travolti dalla valanga sull'Icefalldell'Everest, sono morti sul lavoro, il mestiere durissimo di attrezzare la cascata di blocchi di ghiaccio che sale verso il punto più alto della Terra per il divertimento di ricchi occidentali in cerca di adrenalina. Se ha senso una contabilità dei morti, la tragedia di stamattina sull'Icefall raddoppia il numero degli immolati della Thyssen. E fra i disastri sull'Everest, appanna perfino la più famosa tra le "fatalities" della montagna, gli otto uccisi nella bufera il 10 e 11 maggio 1996, il dramma raccontato dal bestseller di Jon Krakauer, "Aria sottile". I due fatti, pur nella loro diversità, sono strettamente legati. L'odissea del 1996, soprattutto grazie al libro delll'inviato-alpinista della rivista Outside, segnò l'irruzione, nell'immaginario dei non appassionati di montagna, del concetto di "spedizione commerciale", che nel giro di pochi anni stravolgerà l'approccio alle grandi vette. Grandi organizzazioni commerciali, talvolta multinazionali, che offrono in un pacchetto completo l'Everest o il K2 - i più ambiti - ma anche le altre cime d'Himalaya e Karakorum. Cinquantamila dollari per viaggio, organizzazione del trekking al campo base, guida d'alta quota al seguito come un angelo custode, bombole d'ossigeno pronte a dare il loro aiuto indispensabile. La cifra è più alta per chi vuole due guide ai fianchi, la sicurezza quasi assoluta di arrivare in cima trascinati e spinti come i salitori sul Monte Bianco dell'Ottocento. Il campo base dell'Everest, fino agli anni Novanta popolato di poche decine di tende nei due periodi dell'anno più indicati per la salita (pre e post monsonico), si trasforma in un affollato centro commerciale, la ressa sulla via normale è insostenibile. Quest'anno, da fine aprile sono attesi oltre trecento gruppi desiderosi di raggiungere gli 8.848 metri. Un caos che lo scorso anno ha portato addirittura a una rissa sullo stesso ghiacciaio teatro della tragedia di ieri. Protagonisti gli sherpa impegnati a stendere le corde fisse, che come un filo di ragno porteranno in alto alpinisti spesso improvvisati, e un team di superstar degli ottomila, Simone Moro e Ueli Steck. Lo scontro, che si è protratto per un paio di giorni, con litigi, lanci di pietre, processi popolari fra le tende del campo base, ha portato quest'anno al raddoppio degli sherpa impegnati alla base dell'Everest e alla presenza di un gruppo di poliziotti nepalesi. Che cosa tutto questo abbia a che fare con l'alpinismo è difficile dirlo, ma le spedizioni al tetto del mondo sono per l'intero Nepal il maggior introito di moneta forte, anche se il flusso di denaro è spesso dirottato nelle casse delle agenzie turistiche soprattutto statunitensi. La tragedia di ieri potrebbe segnare uno stop, un momento di riflessione nell'orgia dell'assalto all'"aria sottile", ma così non sarà. E' stato un incidente sul lavoro, si diceva, qualche magistrato nepalese cercherà senza trovarlo un responsabile, nel frattempo arriveranno i primi turisti d'alta quota, con le tasche gonfie di dollari, e il circo ricomincerà lo spettacolo.

Ciao

Ausonio Gallio.

 

Ciao Oreste e grazie per il materiale mi hai spedito. Lo leggerò con attenzione. Vedo di utilizzarlo per l’Annuario 2014.

Gege

 

Ciao Oreste, sono Giovanni (CAI Cedegolo). Ti ho sempre ammirato, non per le tue imprese ma per la persona speciale che c’è in te e i racconti di Battistino hanno rafforzato la mia stima in te.Ti giuro che dopo la spedizione Huascarán 1993 dissi basta MONTAGNA. Mi portò via l’amico più VERO che avevo, mi portò via parte di me. Mi sono sposato, ho avuto due figli meravigliosi che mi vogliono un gran bene, ma alla lunga la mia passione si è fatta sentire sempre più forte. 2012: Peak Lenin  ed ora un 8000. È  sacrosanto quello che hai scritto, ma è più forte di me e avrei bisogno di almeno una settimana per raccontarti quello che ho dentro, anche se penso che mi puoi capire e comprendere. Non voglio stufarti con le mie storie anche perché avrai altro da fare, ma la colpa più grossa  di queste assurde MORTI è colpa anche nostra,  Accompagnatori –istruttori alpinismo e sci alpinismo, non sanno più trasmettere il vero senso di andare x monti dove ai vecchi corsi con Battista era la base ancor prima dei nodi, corde ecc.

Ciao Oreste scusami e perdona il mio italiano che lascia un po’ a desiderare. Augurandoti una BUONA PASQUA  e una buona serata, con la speranza di vederti presto.

Giovanni Blanchetti.

 

Ciao Oreste, 

non dobbiamo arrenderci ma continuare nel nostro progetto per cercare di fare conoscere all'uomo "L'ALTRA MONTAGNA", ho fatto un intervento suwww.montagna.tv qui le mie parole:  "La montagna si ribella all’egoismo e presunzione dell’uomo e nonostante questo lui ancora non riesce a capire. Troppe persone e troppe spedizioni commerciali affollano questi giganti buoni, buoni fino a che non si arrabbiano. Provate a chiedere a chiunque abbia conquistato un 8.000 cosa si ricorda della sua impresa, si ricorda solo il fatto di essere stato uno dei tanti ad avere raggiunto un obiettivo ma nessuno ti dirà mai o si ricorderà di una cosa bella che la montagna gli ha mostrato, per esempio un fiore, un bel tramonto, una notte stellata ecc.. questo dobbiamo apprezzare della montagna e dobbiamo cercare di capire.. la natura ci regala cose fantastiche e spettacolari che troviamo anche a 2.000 metri e meno, non è necessario andare in massa a fare i conquistatori, conquistatori di cosa? Riflettete!" (Danilo Genovina.)

 

Alegher Oreste, sono Paolo amico di Lorenzo (quel Lorenzo ancora là sulla parete) Egidio m'ha girato e ho letto quello che hai scritto e penso sia cosa impossibile frenare l'euforia di chi và in montagna ai livelli di gente come il Bach......

Io credo che ognuno di noi abbia un destino: 5 miei amici che con me condividevano avventure in montagna sono passa a miglior vita, io sono ancora qua, ora il mio modo di andare in montagna è cambiato, sono ingrassato e già la forma fisica cambia il mio modo di andare in giro, gli anni passano e i tempi di recupero sono + lenti, vivo la montagna con maggior osservazione, sono appena stato con l'ely al col del lys, magnificat sublime vedere in 3D quello che vedevo sui libri e il pensiero correva agli amici lassù. L'arrampicare x me è diventato divertimento e portar in gir gente che vuole appassionarsi alla montagna, spiegandone anche i rischi ma noto che molti non vedono i rischi e x fargli capire creo degli esempi a rischio calcolato (voli in strapiombo) e similari. Io penso che quello che faccia male ai giovani d'oggi, siano i video adrenalinici: redbullmonster, ecc. che spaziano in tutti campi sportivi. Mettere regole penso sia impossibile e contronatura, ma dare lezioni di vita penso siiiii quello sia possibile io ci provo nel mio piccolo. Sto osservando il "progetto Icaro" non so se lo conosci, è un'ottima idea x i giovani che si avvicinano al freerider senza nessuna esperienza, vediamo come prosegue, quest'anno euforia totale, speriamo continui così.

A presto

Paolo Galeazzi.

 

Ciao Oreste, 

sono un Accompagnatore Sezionale di Alpinismo Giovanile della sezione CAI di Giussano. Scusa se mi permetto di darti del tu ma così mi rimane un po’ più semplice esprimere certi concetti. Sono molto d'accordo su quello che hai scritto ma ci sono persone che la pensano in modo diverso. Nel paragrafo "Evitarla per se stessi" scrivi: "Sì, perché trovi la pace quando raggiungi la tua cima, e quindi c’è chi ci arriva più facilmente e chi deve lottare duramente, facendo i conti anche con un ambiente ostile. Una strada senza via d’uscita, quindi? Sembrerebbe, ma l’esperienza personale mi dice che non è così, perché oltre alla scalata vera e propria ci sono altri mezzi che aiutano ad arrivare su questa cima. La mia cima fu piuttosto dura, ma non durissima, e la raggiunsi nel momento in cui non ebbi più bisogno delle sfide. Quando la luce accecante che prima mi attirava senza scampo verso l’alto iniziò ad affievolirsi. Gli altri mezzi furono l’arrivo dei figli, l’interesse e la passione crescente per la scrittura, la maturità che avanzava, certamente, con la maggior sicurezza in me stesso. Purtroppo anche la perdita di amici cari, caduti in montagna, e quella di tanti alpinisti forti che avevo conosciuto.Vedo in molte persone la necessità di cercare delle sfide: sono le sfide stesse a motivarli e a portarli in montagna. Queste persone non cercano la MONTAGNA nel senso di piacere, ma vedono la montagna come semplice pratica di sport. Sport visto nel suo lato negativo: il confronto per dimostrare di essere gli unici e i migliori. Dicendo questo non sono contrario alla competizione, anzi, reputo che questa porti a migliorare se stessi, ma sono contrario al carattere proprio delle persone che vogliono vincere perché non hanno altri stimoli in quanto hanno trovato qualcosa in cui risaltano senza fare troppi sforzi e non vogliono provare nuove esperienze che potrebbero portare loro nuove visioni della vita come perdenti. Tu hai avuto la fortuna e lo stimolo della scrittura, e anche in questo campo sei risaltato. Altri non vogliono cimentarsi in nuove iniziative perché non vedono altro che la propria figura. In un mondo fatto di immagine non possono permettersi di dire: "Ho fallito" perché si rovinerebbero l'immagine che gli altri hanno di lui. Un altro punto che mi lascia perplesso è il pubblico. Dici che dovrebbe essere più obiettivo e dovrebbe dire le cose senza timore se uno sbaglia, ma, spesso, è il pubblico stesso che incita a dare di più, e, se una persona guarda solo la sua immagine, non vuole deluderlo e farà di tutto per accontentarlo per paura di perderlo. La MONTAGNA dal mio punto di vista è crescita. Crescita individuale, crescita di nuove amici, crescita dei proprio limiti, crescita di esperienze e crescita delle proprie conoscenze. Da un certo punto di vista è ciò che tu definisci "mia montagna interiore", quella che come tu affermi hai scoperto più avanti. Come vedi il mio pensiero rispecchia molto il tuo e bisogna imparare a trasmettere la bellezza della montagna non solo tramite gli alpinisti ma tramite i fotografi, gli scrittori, i poeti e i nonni con i loro racconti. Spero di essere stato chiaro e di averti aiutato.

 Ciao

Jacopo Terrenghi

 

Caro Oreste,

sai già che sono sostanzialmente d’accordo con te. Sintetizzando mi pare che il rischio non lo si possa annullare senza paralizzare l’uomo. E che alcune attività sono oggettivamente più rischiose di altre, ma non per questo meno importanti e significativeMa certo è necessario un senso di responsabilità in confronti propri e di chi la vita ci ha affidato. Da una parte questa responsabilità aiuta a non fare un’attività senza una seria preparazione (a volte l’alpinista poco preparato si muove come se le condizioni e il tempo dovesse essere sempre bello come alla partenza. Main montagna le condizioni cambiano moltissimo…).Dall’altra c’è chi è competente e preparato ma, proprio per questo, si muove su terreni oggettivamente più insidiosi. Se il problema è la responsabilità, si tratta di una tematica etica. Che è tanto più forte quanto più uno ha capito il reale valore della vita. Allora la gerarchia di valori si assesta naturalmente da sé. Per questo il problema è di difficile risoluzione, perché non è un problema tecnico ma etico. In un certo senso la cosa migliore non è solo (e si deve farlo) parlare della possibilità di morire in montagna, ma anche parlare della vita, di cosa ci può dare e dei motivi per cui vale la pena impiegarla… Va be’, scusa il tono da predica di basso profilo. Girerò senz’altro il testo ai miei amici. Ne ho fatto un pdf (preferisco girare quello), rivedendo un po’ la formattazione. La giro anche a te, se ti possa servire. Un caro saluto

Marco Dalla Torre

 

23 maggio 2014. Ritrovato il corpo dello sci alpinista Marcello Ferrari, di Arco (TN), travolto da valanga sul Monte Collalto una decina di giorni prima. 

 

 

Ciao Oreste,

purtroppo conoscevo personalmente Anghileri e la Sua Famiglia; è stato un duro colpo! Le Tue riflessioni e la Tua nuova battaglia di informazione e sensibilizzazione sui pericoli della montagna sono per me e per la mia famiglia il pensiero più saggio per vivere la montagna fino al punto di non dimenticare  la bellezza della vita. Ti Auguro una felice Pasqua con la Tua Famiglia.

Giorgio Colombo.

 

Oreste, scusa per il ritardo ma mentre stavo leggendo la tua mail, dall'altra stanza ho sentito il TG VENETO che commentava una notizia di un'altro incidente in montagna. Ilio un uomo  di 59 anni di Cencenighe è scivolato per 300 metri dal Monte Pavione nelle vette Feltrine e purtroppo non è più con noi. Allora ho cercato di capire e riflettere ancora di più su quanto da te scritto ma subito non ci sono riuscito. Mi è scappato solo un perché ... Ilio, leggendo, quando scritto sul giornale, era molto prudente e soprattutto non andava in cerca di pericoli inutili ed era un ottimo rocciatore e scialpinista. Ma allora... perché ...

Voglio rifletterci ancora e commentare con te queste parole che ho trovato:

 A lungo poi è stato il pretesto della scienza a motivare le salite in montagna (Michel-Gabriel Paccard e Jacques Balmat sul Monte Bianco). Ma è solo un alibi e tale si dimostra, come dice chiaramente il titolo della biografia dello scalatore Lionel TerrayLes conquérants de l’inutile, i conquistatori dell’inutile, che sottolinea la gratuità dell’alpinismo. Eppure, si continua ad arrampicare e si è sempre più sedotti dalle cime. Quindi ci deve essere qualcos’altro, una motivazione che porta al rischiare in modo disinteressato. L’alpinista Camanni è esplicito: “Il desiderio dell’innamoramento, ecco la motivazione. Non è l’altezza di per sé, perché oggi se hai dei soldi puoi comprare la tua scalata sull’Everest, con i portatori che ti conducono con l’ossigeno, senza rischi né imprevisti. Ma non è nemmeno la performance o la fama: è solo la passione totalizzante quella che può portarti in alto e motivare il rischio affrontato. Il rischio – continua lo scrittore – è necessario, perché senza rischio non c’è l’avventura. E senza l’avventura non esiste la vita. Se si arriva al punto di ‘uccidere il drago’, addomesticare tutto, si perde il senso del nostro passaggio su questa Terra. Bisogna avere una passione fortissima a sostenerci, ma anche conoscere i propri limiti, ovvero sapere quando fermarsi”.

 

Grazie Oreste farò girare le tue riflessioni ad amici soprattutto alpinisti. Approfitto anche se in anticipo per augurare a te e famiglia una serena e Buona Pasqua.

Ciao

Ausonio Gallio

 

Ciao Oreste.

Scusami se ti rispondo solo adesso, ma questo è l'unico momento, tra lavoro e famiglia, che mi permette di "pensare un po' a me stesso". Ho letto e apprezzato molto il documento che mi hai inviato. L'ho anche già girato ad alcuni amici che amano la montagna. Ci sarebbe da farne un vademecum del buon alpinista, del perfetto escursionista. Anche se, ne sono convinto, può servire anche nella vita di tutti i giorni. Penso a quei due ragazzi che, a pochi chilometri dal mio paese, sono morti. Finiti in un canale solo per provare il "brivido" di salire in otto su una utilitaria. Ti ringrazio per questa tua riflessione. Ne farò un inno alla vita, la porterò sui sentieri di montagna, la trasmetterò ai colleghi di lavoro e alle persone che incontrerò: la vita, nonostante i suoi alti e bassi, va vissuta gustandola fino in fondo.

Ancora grazie. A presto. Ciao

Paolo Mussetola.

 

Caro Oreste,

ho letto la tua riflessione con attenzione ritrovando e condividendo  senza dubbio molte verità. Mentre ti sto scrivendo sono a casa....  con il piede ingessato per una banale caduta durante una ciaspolata in val Anzasca che mi ha causato la rottura del malleolo (è la prima volta in 55 anni che rompo un ossicino). Tanto per stare in tema, l'ultima volta che ti ho incontrato a Prato Maslino mi sono tagliato una mano per una banale scivolata con atterraggio su pietra tagliente .... ..ti ricordi? Gli amici escursionisti / alpinisti che frequento non sono nemmeno lontanamente al tuo livello... io per primo... per cui ," fortunatamente ma è più appropriato dire sfortunatamente", ho vissuto direttamente poche tragedie le cui fatalità fanno però riflettere: L'amico e collega Mauro 28 anni è morto sul ghiacciaio del Ventina mentre si accingeva a fare l'esame di istruttore, era con 4 guide su un tratto ove "normalmente" non ci si lega è caduto e si è rotto l'osso del collo, il padre già malato di cuore è morto qualche tempo dopo, ma la cosa che non scorderò mai è quella bara con sopra il suo caschetto bianco. L'amica Danila, il cui marito è mio compagno di escursioni, durante la discesa dal Corno dei Tre Signori (Gavia) ha mosso una corda fissa provocando la caduta di un sasso che gli ha frantumato due vertebre, perché si è istintivamente voltata, ora è sulla sedia a rotelle. Ti ringrazio di questo tuo messaggio di cui ne farò senz'altro tesoro sopratutto in questo periodo in cui ho modo di riflettere e ti prometto che ne darò diffusione agli amici escursionisti. La casa a Polaggia non ce l'ho più per cui è da un po’ di tempo che non mi reco in Valtellina anche se dovrei comunque venire su ad agosto perché mio figlio Andrea dovrebbe trascorrere un periodo di lavoro su al rif. Gianetti dall'amico Giacomo Fiorelli, magari ci possiamo sentire.... Qualora ti capitasse di fare serate o conferenze nella zona del Lago Maggiore (VA, VB, Ossola,...) ti prego di mandarmi un messaggio che verrei volentieri ad incontrarti.

Un abbraccio Marco Pelizzoni.

 

Grazie Oreste. Come non condividere le Tue riflessioni? Volentieri passo in giro le tue note che penso debbano essere oggetto di profonda attenzione da parte di tutti coloro che come noi frequentano a vario titolo il meraviglioso mondo della montagna. A presto. 

Egidio Bona.

 

Ciao Oreste,

 scusa per i giorni trascorsi, sono stato via a Pasqua e ho letto la posta solo al ritorno. Grazie per le tue riflessioni. Queste morti di persone che si conoscono, a volte amici, giovani, mettono certamente in crisi. In generale condivido il tuo pensiero, le tue riflessioni: per me è evidente che al primo posto c'è la relazione con la bellezza e la vita della montagna, è questo l'obiettivo, non la cima, la via o la difficoltà pura. Ma chissà perché la penso così, e molti altri no? Forse perché di certe situazioni io ho sempre avuto paura, mi accorgo al momento che non vale la pena e cambio percorso o torno indietro. Proprio in questo adattarmi e nel non forzare trovo soddisfazione, trovo la sintonia con la montagna e quindi è questa la meta raggiunta, il successo. L'ho sempre sottolineato nelle mie serate e nei miei articoli. Solo che molti credono che sia io a rischiare grosso, perché seguo la strada della relazione autentica e profonda, anziché fare l'alpinismo normale. Insomma, non è facile farsi capire! Io comunque non ho mai visto in montagna un incidente grave, anche se sono in montagna almeno 100 giorni all'anno da vari decenni. Forse perché evito i luoghi affollati, mi fanno paura, e quindi è poco probabile incappare in certe tragedie. Invece ho visto molti morti e cose spaventose sulle strade, e sono furioso con gran parte degli automobilisti o motociclisti, perché almeno metà della gente che guida non ha la minima intenzione di essere prudente, anzi sfida apposta la vita degli altri per pura nevrosi e aggressività. Per me la follia di cui dobbiamo avere più paura è la corsa alla crescita tecnologica forsennata e senza sosta, io credo che ci schianteremo tutti, e molto prima di quanto si crede. Questo per me è un pericolo molto più grande dell'alpinismo. A parte queste ultime considerazioni, come ti dicevo sono comunque d'accordo che le attività della montagna dovrebbero non solo essere meno mortali, ma dovrebbero dare un messaggio positivo di relazione equilibrata con la natura. Questo continuo parlare di montagna assassina ad ogni tragedia è una cosa che distrugge tutto ciò che invece vale, è un messaggio troppo negativo per tutti, che si aggiunge al dolore delle persone coinvolte. Per me è un impegno fare attività in montagna con il massimo sforzo per ridurre la probabilità di incidenti, penso sia una delle testimonianze migliori che si possono lasciare (purché non si faccia credere di essere "in sicurezza", perché la sicurezza non esiste; questa parola va lasciata ai politici, noi dobbiamo sostituirla al 100% con la parola prudenza!). Qui le strade possono essere anche molto diverse, io per esempio sono convinto che sia proprio l'autenticità della situazione e delle relazioni a ridurre la probabilità di fare sciocchezze, mentre la tendenza generale è quella di passare il tempo al telefono, sul monitor del gps e con strumenti attaccati da tutte le parti, cose che secondo me non solo annientano la relazione, ma illudono di dare sicurezza mentre più che altro distraggono. Detto questo, magari anch'io commetterò una sciocchezza in montagna in un giorno qualsiasi, oppure capiterà qualcosa di imprevedibile; ma è giusto cercare di ridurre questa probabilità, senza ovviamente restare in casa.

Molto volentieri faccio girare le tue riflessioni fra persone che conosco. Mi permetterei di consigliarti solo una piccola variazione in una delle espressioni usate all'inizio delle riflessioni. Il titolo "La montagna come mezzo" potrebbe prestarsi a interpretazioni diverse dal significato originario. Mi pare che si debba intendere che è l'attività umana in montagna a doversi considerare un mezzo (cioè, l'alpinismo, o l'escursionismo, o l'arrampicata, come mezzo); la montagna in sé è una realtà vivente, una sorta di gigantesca creatura, quindi è un valore assoluto come ciascuno di noi, non possiamo definirla un mezzo. Rischieremmo di considerarla un "terreno di gioco" o un campo sportivo, e a quel punto fra l'altro sarebbe inevitabile concedere i circuiti di montagna anche agli enduro e alle motoslitte, e permettere di spaccare tutto, come vogliono lasciar fare i politici lombardi. Direi quindi che agli occhi degli alpinisti la montagna dovrebbe assumere un valore assoluto molto più grande di quello solitamente ammesso, e proprio questa sacralità dovrebbe aiutare a non farne un palazzetto per imprese fini a se stesse.

Ancora grazie per il tema proposto, un caro saluto

Franco Michieli.

 

Caro Oreste, solo ora riesco a leggere la tua mail con gli auguri e le tue riflessioni che sono anche le mie…..quasi identiche…. perché mi hanno appena ridato il PC con il nuovo sistema operativo….in archivio devo avere alcuni articoli scritti a proposito…nonché una poesia….MONTAGNE….che tratta proprio quell’argomento…..un affettuoso abbraccio e a presto.  Giovanna Zawadski.

 

           ALPINISMO  E’…..

Sono anni, anzi decenni, che si parla di alpinismo, si scrive, si dibatte sulla vera

accezione del termine. Da sempre un tema affascinante per l’uomo ma controverso

soprattutto negli intendimenti individuali, personali. Il dizionario enciclopedico cita

            testualmente :  Alpinismo = lo sport delle ascensioni in montagna.

            Definizione freddamente tecnica stampata sulla carta. Assolutamente riduttiva!!!!!!

            Ma poi più avanti, dopo la citazione dei nomi più illustri che hanno fatto la storia

            dell ’alpinismo pionieristico, rientra dicendo: “un approccio alla montagna meno

            estremo ma egualmente appassionante è rappresentato dal “trekking” che porta

            numerosi escursionisti a contatto con le cime più belle del mondo.”

            Ora ci siamo. Ma c’è dell’altro. Le motivazioni che spingono le persone ad

            accostarsi all’ alpinismo inteso come frequentazione della montagna a qualsiasi

            livello sono le più svariate. La prestazione sportiva che sta alla base, comune

            denominatore per tutti, seppure con impegno diverso, è solo un “mezzo” per

            raggiungere il vero “fine”.  Quasi sempre “dietro” ci sono valori che giocano un

            ruolo assai più importante nella storia dell’ individuo anche se egli stesso fatica

            ad ammetterlo. C’è chi consciamente o inconsciamente cerca “qualcosa” al di 

            dei propri limiti e, se accetta la sua condizione umana nel giusto rapporto

            uomo-natura-montagna, spesso lo trova con soddisfazione e quindi serenità.

            Diversamente, c’è chi continua a cercare alzando sì il traguardo dei propri limiti

            ma esponendosi ad inevitabili rischi sempre più incombenti ed imponderabili.

            Una spirale estremamente pericolosa.

            E c’è anche chi varca la soglia dell’ eroismo, del mito, consegnando in pegno

            LA  VITA , portando con sé i suoi grandi interrogativi o forse verità che non

            conosceremo mai. Ecco alcune riflessioni raccolte nel corso degli anni che

            possono essere condivise o discusse da chiunque ami frequentare la montagna.

            Non importa come…

 

           

ALPINISMO  è…

           

Attrazione “irresistibile” verso la dimensione verticale.

            Ossessione primordiale a sfidare la natura. Voglia di avventura.

,           Cultura, tradizione, storia. Storia di uomini. Storia di montagne..

            Desiderio di libertà. Libertà di espressione individuale, collettiva.

            Ritorno alle origini. Ricerca di identità. Aspirazione alla “verticalità” intesa come

            elevazione dello spirito contrapposta al simbolismo antico di “profondità” interiore.

            E’ la risposta immediata dell’uomo ad una sfida con la natura a cui non sa resistere.

            E’ intima provocazione a superare  stesso, i suoi limiti, a cercarne altri.

            E’ ricerca di quei valori etici a cui l’uomo fa riferimento per evolversi, riconoscersi,

            rinnovarsi in sintonia con l’ambiente che lo circonda..

            E’ intima comunione dello spirito con la dimensione soprannaturale dell’assoluto

            che molti chiamano Dio, Creatore, Signore, l’Altissimo, attraverso una miscellanea

            di impulsi, emozioni, sentimenti, passioni, riflessioni.

            E’ fatica, fisica, mentale, lotta interiore, intima sofferenza. Talvolta…..morte!.

            E’ ricerca appassionata, conscia o inconscia, del mistero della vita.

            E’ amicizia. Condivisione di valori. Solidarietà.

            E’ gioia di esistere… nella leggerezza dell’essere.

            E’ desiderio di nuovi orizzonti di pace lontano dai clamori del mondo.

            E’ rifugio della mente e dello spirito quando si soffoca nel disagio esistenziale.

E’ fuga dall’ossessione del tempo, dalla frenesia delle città, dal malessere

            sociale dell’ incomunicabilità.

            E’ viva consolazione nei momenti di disperazione.

            Un “chiodo di salvezza” per non finire nel baratro delle disillusioni.

            E’ rinascita in una dimensione nuova, accogliente, confortante.

            E’ beatitudine… nei grandi spazi del silenzio.

            E’ contemplazione… nella bellezza… nella Maestà del Creato.

            E’ un modo di “essere”.

            Uno stile di vita…

            Un credo per vivere in armonia.

            Un amore a prima vista… Che non finisce mai!!...

 

            Marzo  2004, Giovanna Zawadski

 

 

                                   MONTAGNE…!!

 

 

                                   Verdi… bianche…dorate...incantate…

                                   di pascoli fioriti… trapuntate.

                                   Cattedrali maestose… piramidi austere…chimere!!

                                   Torrioni arroccati… guglie cesellate

                                   proiettate verso cieli infiniti…

                                   tramonti incandescenti.

                                   Vertiginose muraglie di ghiaccio opalescente

                                   sospese sul mondo distante…evanescente…

                                   Pareti levigate…strigliate dalla furia dei venti

                                   …scivolano lente… nell’abisso sottostante.

                                   Creste frastagliate… pizzi cristallini

                                   …lucenti… ricamano l’orizzonte…

                                   nel limpido universo azzurrino.

                                   Sotto un candido velo…di vaghe nuvole

                                   a manto disteso come tante spose.

                                   Spose amanti di principi arditi…

                                   ultima dimora dei suoi eroi traditi.

                                   Magnetica dimensione verticale verso l’Assoluto.

                                   Sublime anelito di alti ideali col sangue scolpiti…

                                   sulle sacre pietre degli antri… per sempre custoditi.

                                   Silenti testimoni della storia…di vita e passioni

                                   di lunga memoria…rocce intrise di umana gloria.

                                   Nell’animo conteso…forte è il richiamo

                                   dell’ invicta cima…ma ancor più sofferta è la salita                       

                                   verso l’ insormontabile vetta della rinuncia…

                                   e conquistare alfine col cor compresso…

                                   il traguardo più arduo… ma assai più prezioso…   

                                  

                                    

                                                                      LA  VITA !!    

            

Gent.mo Oreste

probabilmente non sai chi sono, ci siamo incontati  molti anni fa sia al CAI di Mestre che al Premio Gambrinus -Mazzotti. Sono amico di Toio e insieme siamo anche nel direttivo MW . Mi ha comunicato le tue riflessioni e mi ha fatto molto piacere. Parlando con lui... ci piacerebbe, se a te farà piacere, pubblicarle nel prossimo nostro notiziario di Mountain Wilderness. Che ne pensi?

Ti ringrazio

Ciao Giancarlo Gazzola.

 

 

24 maggio 2014. Virginio Carenini, di 62 anni, muore sul Monte Graviasca, in Val Brembana. 

24 maggio 2014. Alberto Manzini, sci alpinista di 46 anni, muore nel tentativo di discesa con gli sci dal Monte Pasquale, in Valfurva.  

24 maggio 2014. Francesco Garrone, escursionista di 70 anni, precipita e muore in discesa dal Grignone. 

 

Unforgettable Oreste, comincio dal rivederci. La nostra povera città avrebbe certo bisogno di messaggi come quello di cui sei portatore, vediamo quello che posso fare, anche se ho due figli piccoli e tu sai che...Cerco di muovermi comunque per organizzare un incontro, pure io voglio rivederti e presentarti alla mia famiglia. Grazie, intanto, perché pensi a me, tanto da mandarmi il frutto dei tuoi pensieri e del tuo vissuto. Abbraccio da noi, tutti ti ricordiamo con affetto.

A presto, a presto, Sandro Cordeschi.           

 

 Oreste,

hai ragione in questi casi non resta altro che accettare l'accaduto, altrimenti non vai da nessuna parte e non solo in montagna .... A proposito vorrei ricordare Cristina Castagna di Valdagno (VI) che purtroppo il Broad Peak nel 2009 si è voluto tenere a soli 32 anni, attraverso le sue parole e con il soprannome che suo padre le aveva dato in quanto non stava mai ferma come il grillo, "el grio" in dialetto veneto. 

"Ogni tanto mi sembra che il Mondo sia impossibile, che i miei sogni e i miei progetti non siano che vaneggiamenti di un'ubriaca di emozioni ...

Poi però so che la mente può essere più veloce del vento, che il Cuore può essere più grande del Mondo.

Allora alzo la testa, asciugo le lacrime e ritorno a lottare  per ciò che mi fa vivere la vita.

So che altrimenti non ne varrebbe la pena. "       

El Grio

Ausonio Gallio. 

 

 Ciao Oreste ho condiviso le tue "riflessioni", ed ho già iniziato a farle circolare tramite questo ingegnoso marchingegno. a Gino Baccanelli , c.a.i. di Vestone,  c.a i. di B.S. ed amici e .... ...parenti vari ecc. ecc. Tullio Pizzoni.

 

Ciao Oreste, mi fa piacere che il tuo documento abbia trovato ampia eco anche in un contesto ufficiale come il Festival di Trento. Lo stanno leggendo in tanti e, al di là di come la si pensi, credo che nessuno possa restare indifferente. Il tuo pezzo sarà inserito nell'agenda, pensavamo addirittura come parte introduttiva, grazie per averci dato questa possibilità.

Alessandra Gregoris.

 

 

Caro Oreste. grazie delle tue riflessioni, che se mi permetti girerò ad alcuni amici sia del nostro gruppo roccia che delle scuole di alpinismo e sci alpinismo. Questo non lenirà il dolore personale di ogni amico, ma aiuterà a riflettere proprio su quello che facciamo e sul tema della morte, soprattutto in montagna. Il tuo pensiero, più razionale, ci servirà nelle necessarie considerazioni sia sull'accaduto sia sulle attività future, dopo aver metabolizzato il lutto. Personalmente sono sempre stato particolarmente sensibile sia alle problematiche sulla sicurezza, sia sulle modalità di affrontare la montagna a 360°, rispettandola prima di tutto, come tutti gli amori, senza farsi cogliere dalle passioni incontrollate. Personalmente ho avuto la fortuna di avere in gioventù delle guide eccezionali di vita ed di montagna, e proprio le loro premature morti in montagna hanno forgiato la mia filosofia di vita. L'Alessandra Gregoris, conoscendo la mia sensibilità ed il momento che stiamo passando in seno alla sezione C.A.I. di Vittorio Veneto,  mi aveva già girato le tue riflessioni, quale ulteriore contributo ai pensieri di questi giorni. Grazie ancora delle belle parole e spero di incontrarti presto magari organizzando un'altra serata culturale a Vittorio Veneto. Buona Montagna.

Giorgio Salvador.

 

Caro Oreste,

grazie delle tue riflessioni che trovo oneste e sensate. Io stesso vado in montagna a fare scalate più o meno difficili ed ora ho anche 4 figli da crescere e da mantenere e quindi una grande responsabilità morale. Ho limitato molto la mia area di rischio ma come tu ben sai un sasso o un nodo fatto male o una disattenzione in una doppia possono sempre capitare. E quindi in teoria dovrei limitarmi a camminare in montagna. Invece mi prendo qualche rischio seppure contenuto. Se dovessi morire francamente non mi dispiace tanto per me quanto per mia moglie e per i miei figli a cui causerei un dolore infinito ed un problema economico pratico. Premesso questo non sono totalmente d'accordo con te poiché mi sembra che tu stia dicendo: io ho fatto l'alpinista, ora ho una famiglia e vi dico di non rischiare più. Troppo comodo!!!!!!

Non penso che ci sia una soluzione giusta - anche il mio compromesso di cercare di fare cose  semplici, sicure, chiodate, no cascate di ghiaccio, no scialpinismo non mi mette al riparo dai possibili incidenti prevedibili o no. L'unica sarebbe smettere. Io ho smesso anni fa quando avevo i figli molto piccoli.  Poi dopo sono ricaduto nel vizio!

Massimo Bursi


Caro Massimo, tu mi dici: “Troppo comodo!!!!!!”. Altri mi dicono: “Proprio tu che hai fatto tutte queste cose adesso vieni a dire che non bisogna farle?! Per questo sento che devo fare un po’ di chiarezza. Comincerò col dirti che nell’85 mi sono trovato faccia a faccia con la morte quando, durante la salita dello Xixa Pangma, finii in un crepaccio. Sono vivo solo grazie ai miei compagni che mi hanno tirato fuori e trasportato in basso. Per dirti com’ero messo, al ritorno dalla spedizione, esattamente 18 giorni dopo l’incidente, mi sono fatto 40 inutili giorni di immobilità in un letto d’ospedale. Inutili, perché quello che ormai era fatto era fatto. Eppure l’anno dopo giungevo da solo, in testa, in cima allo Huascaran, e in quello stesso giorno, come sarebbe poi successo con la discesa dal Pisco e dal Copa, sciavo allegramente coi compagni (ognuno per conto proprio, naturalmente) tra i crepacci. E sai perché? Perché la luce che mi attirava sulle cime era troppo abbagliante e mi impediva di vedere dove mettevo i piedi. Tipico dell’esuberanza della gioventù. Di contro, nelle mie ultime due spedizioni ho rinunciato alla cima per il rischio ben evidente a cui sarei andato incontro. Rischio di seracchi in bilico in alto sul Pumori, che già l’anno prima avevano fatto quattro morti tra i componenti di una spedizione spagnola (una ragazza era lì con noi per cercare i resti dei suoi due fratelli), e ancora rischio per seracchi, che avevano disseminato di blocchi di ghiaccio la base della parete, al Lila Peak. Sul Pumori non me l’ero proprio sentita di mettere a repentaglio la mia vita, e tanto meno sul Lila Peak, pensando anche al mio primo figlio che stava per nascere in quei giorni. I miei compagni, invece, non si preoccuparono più di tanto e raggiunsero la cima. Credi che abbia avuto dei rimpianti per avere rinunciato, per avere perso un’occasione che non si sarebbe mai più ripetuta? Ti assicuro di no, perché quella era la mia convinzione che si è sempre più consolidata. E perché? Forse perché tra i due fatti, crepaccio e ultime spedizioni, erano passati più di 10 anni, e in 10 anni una persona cresce, matura se vuoi, e vede quello che non vedeva prima. Come se quella luce accecante fosse andata affievolendosi sempre più, magari anche in seguito alla morte di compagni. Comunque arrivo alla sostanza. La persona matura che è passata attraverso le esperienze che ho vissuto io riesce a vedere quello che non vedono le persone attirate dalle ‘conquiste’, come fui io allora, e quindi mi sembra doveroso cercare di fare qualche cosa per quest’altri. Di certo non dicendo loro di non andare, ma aprendo loro gli occhi sulle possibili conseguenze. Quand’ero giovane e salivo da solo le montagne, mia madre mi rimproverava sempre e cercava di dissuadermi dicendomi che prima o poi mi sarebbe successo qualcosa. Ma che peso potevano avere le sue parole, visto che di montagna non ne sapeva niente (purtroppo non riuscivo a sentire la voce del suo cuore)? Se invece fosse stato un alpinista esperto, tipo una di quelle guide che incontravo ai rifugi della Valmasino o della Valmalenco, a dirmi: “Guarda che non devi andare a fare certe cose da solo e senza esperienza, perché corri il rischio di non tornare”, probabilmente l’avrei ascoltato e mi sarei cercato un compagno preparato. Per questo penso che non sia sbagliato cercare di dare una mano. Ciao.

Oreste 

 

 

 

Ciao Ragazzi, grazie all'Alessandra Gregoris, che mi aveva girato delle prime riflessioni, Oreste Forno mi ha inviato un suo pensiero,  che vi allego, dopo la morte di Marco Anghileri. Le sue parole sono state per me di conforto, ma sopratutto un'altro spunto di riflessione su quello che facciamo e soprattutto sul tema della morte in montagna. Dopo le mie riflessioni emozionali, credo che queste righe, più strutturate ed articolate, ci possano essere d'aiuto nelle riflessioni e nelle discussioni future. Ho messo in copia solo pochi amici, per pudore e rispetto del lutto della famiglia di Simone, ma se ritenete che il pensiero di Oreste, possa essere utile agli amici, fatelo girare per conoscenza con discrezione. Grazie a tutti dell'attenzione e della pazienza, ma il tema della morte in montagna, ha segnato la mia vita, per cui sento sempre il bisogno di condividerne le riflessioni.

Buona Montagna. Cordiali Saluti.

Giorgio Salvador

 

Ciao Oreste,

grazie per gli auguri e speriamo di vederci.Leggerò con calma le tue riflessioni sul morire in Montagna...io sono uno dei sopravissuti e me la sono cavata per miracolo, contro ogni logica, ed è stata non una fine ( della "carriera" alpinistica) ma un inizio, forse un'iniziazione. Da là è cominciata una nuova avventura che ancora dura, ancora sono sulla traccia segnata in quel periodo sul Manaslu, che in sanscrito forse significa la Montagna dell'Anima. Sono stato risparmiato, ma nona gratis, mi hanno consegnato in mano un testimone, un compito da svolgere che via via negli anni si è andato delineando. Se non fossi arrivato  su quella Montagna fino alla porta dell'aldilà ( chissà, forse la ho anche superata..) non avrei "capito" il Cansiglio... Grazie per esserti ricordato di mandarmi questo messaggio. Sono arrivato quasi alla fine  del nuovo libro, che parla di Montagna, di Cansiglio e, molto più esplicitamente, di quei temi che ti sono cari, appunto il mistero della vita, il significato della morte e la ricerca dei perché. Sarai uno dei primi a riceverlo....

un abbraccio, toio

 

 

 

Per un commento al lungo testo di Oreste Forno “La montagna per la vita”, più che un riscontro scritto, risulterebbe più valido ed esaustivo un confronto verbale, meglio ancora un dibattito a più voci. Su molte delle posizioni espresse è innegabile che possono essere contrapposti punti di vista differenti, anche se in linea di principio non mi sento di contestare le considerazioni da lui proposte. Qui però ci troviamo di fronte non alle indiscutibili affermazioni della matematica o delle scienze empiriche. Nel caso in questione piuttosto ci troviamo assai vicini a ciò che confina con lo spirito, dove già questa parola vieneinterpretata in sensi diametralmente opposti. Intendo dire che, per parlare di morte, bisognerebbe prima esporre che cosa rappresenta per ognuno questoavvenimento. Credo che una risposta soggettivamente diversa comporti anche differenti considerazioni su tutte le rispettive conseguenze, secondo che uno sia convinto che la morte sia davvero la fine di tutto e non piuttosto il passaggio che porta alla pienezza della vita. Non può essere forse questo l’interrogativo inconscio che agita la vita di ogni uomo a determinare i vari comportamenti esistenziali e a verificare in ultima analisi tutte le deterrenze al rischio così bene descritte nel saggio di Oreste Forno? Del resto, infatti, non constatiamo ogni giorno che, nonostante i molti ammonimenti, chi è dedito al fumo continua a fumare, chi si droga non si sogna di smettere? E non si muore per incidenti vari anche quando si è intenti a lavorare, o quando ci si trova impegnati in ogni genere di attività ludica o sportiva, come quando si passeggia tranquillamente su un marciapiede o ci si sposta con prudenza in automobile? Che dire poi dei quotidiani delitti mortali dettati dalla gelosia, dall’avidità o semplicemente da una mente malata? Le conseguenze derivanti da tutta questa casistica sono forse meno tragiche e dolorose di quelle dovute a una morte causata da un azzardato comportamento in montagna?

C’è anche un altro aspetto che dovrebbe essere preso in considerazione e che riguarda allo stesso modo chi viene colpito da una disgrazia o da una malattia che porta alla fine propria o dei propri cari. È la domanda che sorge inevitabilmente e che si fa udire in forma lacerante: perché proprio a me? Non è forse anche questo aspetto che esprime la presunzione della incolumità propria o familiare ciò che alberga nel profondo dell’uomo?

A mio parere, tutto questo rivela una problematica che rende percepibile un’enorme quantità di sfaccettature da cui non si può sfuggire nemmeno quando si affronta la tematica intesa dalla giusta preoccupazione di prevenire le tante morti in montagna e si vanno ad esporre considerazioni e motivazioni che non possono essere sottovalutate, ma che per essere accolte esigono la risposta fondamentale che si può dare soltanto da se stessi.

Renato Frigerio

 

Buongiorno Sig. Oreste,

come da accordi telefonici intercorsi in data odierna con il Nostro Delegato A. Fumagalli siamo a richiedere la possibilità di un intervento,  inerente le Sue recenti riflessioni “La Montagna per la vita” , in occasione della giornata “Sicuri sul Sentiero” prevista il 15 giugno p.v. c/o il Centro di Formazione Cnsassito ai Piani di Bobbio (Barzio).

In attesa di un Suo riscontro colgo l’occasione per porgerLe i miei saluti.

 CNSAS XIX Delegazione Lariana

La segretaria

Carla D’amico

 

Ciao Oreste, ti chiedo scusa di questo mio ritardo nel rispondere alla tua Email .

Ho letto più volte le tue riflessioni e mio parere hai fatto una cosa bellissima.

Non ho nessun commento da fare perché condivido pienamente tutto quello

che hai scritto.

Ho apprezzato che tu mi abbia ritenuto all’altezza di darti suggerimenti.

Grazie, sempre disponibile a darti una mano  Franco Iotti

 

PS. Le ho fatte girare a tanti ex colleghi IBM.

 

 

 

Buongiorno Oreste Forno,

grazie per le tue parole così chiare, così forti e così tristi: una vera manifestazione di protesta contro la morte inutile.

Ognuno che va in montagna dovrebbe leggerle e firmare di aver letto.... , diventerebbe più facile rinunciare alla cima e stare in valle in un bel caffè causa cambiamento del tempo. È bello solo guardare le montagne....

Un caro saluto,

Monika Pietzko

 

 

Buongiorno Sig. Oreste,

per una strana, ma affascinante coincidenza stavo proprio salendo al secondo piano dove ho il computer con l'idea di scrivere qualche riga come mio intervento, quando mi è suonato il cellulare che mi segnalava la sua nuova mail. 

Ne approfitto allora per approfondire subito l'argomento.

I celebri venticinque lettori (che in questa versione sono diventati ascoltatori) a cui ambisce, le fanno onore: sono sicuro che saranno molti di più, ma esser mossi solo dalla motivazione che "qualcuno prima o poi ci ascolterà", oggigiorno non è da tutti. E' la conferma della sua sincera sensibilità per l'argomento. Davvero, ha tutta la mia ammirazione.

Le auguro un buon prosieguo di giornata. 

Filippo Salvioni

 

Caro Oreste,

                        è trascorso qualche giorno dalla tua risposta… La tua riflessione è una provocazione dovuta e ti fa onore. Troverà di certo discordanze perché l’alpinismo “è sempre più “prodotto di un mercato” impostato sul loisir.  Un mercato che vola basso, rasoterra.

E “ Trento” come le analoghe “kermesse” ne risente e ne riflette gli umori.

Però c’è ancora un alpinismo pensante, introspettivo e ad esso tu dai voce.

Continua  in questo impegno, che è idealità, cultura, umanità.

Ciao.

Giovanni Padovani

 

Buongiorno Sig. Forno,

La ringrazio per la condivisione del link e accolgo molto volentieri il suo invito a partecipare all'argomento.

E' molto interessante il fatto che sia nata una discussione sull'argomento, visto che un dibattito dovrebbe sempre portare, o quanto meno puntare, al miglioramento. 

Non le nascondo una mia impressione (molto probabilmente superficiale): mi sembra di notare che chi si erge a paladino dell'alpinismo come massima espressione dell'eroismo e della difesa della libertà (di morte) altrui, molto spesso si tratta di gente che in montagna ci va poco e adora più fantasticare con la mente e con le parole sulla cosiddetta "morte per la fede". 

Ripeto, è una mia impressione sicuramente molto superficiale che le riporto qui in privato, ma che comunque avverto nell'aria quando mi imbatto in certi tipi di argomento. Qualche tempo fa stavo parlando con Auer, quando si è avvicinata una signora che lo ammonì per la free solo sulla via del Pesce. Sorprendendo anche me, lui tranquillamente le rispose: 

"No, no, evito di fare ancora certe cose perché voglio arrivare anch'io ai novant'anni..."

Ecco, una risposta tanto sincera, quanto spontanea che però mi fece capire come in molti forti alpinisti quel senso di realtà sia comunque ben presente. Giustamente bisognerebbe vedere quanto questo sia poi supportato da fatti concreti e quanto, invece, questo senso di realtà magari poi scompaia di fronte ad una parete immacolata. Comunque, in qualche parte dell'animo c'è.

Il suo richiamo sig. Forno, si deve assolutamente diffondere a tutti, senza distinzioni di bravura, esperienze, età. 

Se però devo essere sincero mi sembra più diffusa la tipologia dell' "alpinista della cima a tutti i costi", molto di più tra gli alpinisti di livello medio che tra i toplevel. Il forte alpinista forse fa un ragionamento più intimo e privato con la sua concezione della morte, ma credo che difficilmente vedrò mai un alpinista di alto livello difendere pubblicamente la sua libertà di morte. Probabilmente pubblicamente difenderà la sua libertà di vita, ma non quella di morte.  

Parole del tipo "una scelta di vita che prevede di vivere una vita, non una non vita!" scritte a favore di una libertà di morte, oggigiorno si sentono e leggono troppo spesso. Forse, queste sono ancora più pericolose di quell'ambizione privata e smisurata che ci annebbia la mente e ci porta alla "cima a tutti i costi". Anche a proposito di queste parole bisognerebbe scrivere qualcosa. 

Sarò banale, ma io credo Sig. Forno, che il suo scritto trova e troverà diverse persone in disaccordo proprio perché parla di morte, questo acerrimo eancestrale elemento a noi sconosciuto. Il suo intervento però aveva un senso molto più ampio, almeno io l'ho interpretato così.

Un bellissimo libro di Philippe Petit è vero, termina con le seguenti parole: "Io che speravo nel dono più caro ai funamboli - una fine sul filo". Chi legge questa semplice frase, può credere di trovarsi di fronte alla massima espressione dell'eroismo più vero, alla celebrazione della morte per la fede, ma chi pensa questo non ha proprio capito tutto il resto del libro. La montagna è davvero qualcosa di meraviglioso, chi va in montagna sa di correre dei rischi, ma lo deve fare con un approccio completamente differente: è consapevole che ci sono dei rischi casuali e imprevedibili, così come ci sono in ogni attività umana, così come ci sono nella vita stessa, ma deve far di tutto per cercar di evitarli e ridurli al minimo. 

E' assolutamente vero: quando la cima è a pochi tiri, quando manca davvero poco, ma ci si accorge che i fattori iniziano ad essere troppo rischiosi (magari solo temporaneamente, magari definitivamente), non resta altro da fare che rivolgersi di 180° e tornare indietro con la musica di Let it Be che ci risuona in testa. In fondo, tutta la vita è un'avventura.

La ringrazio ancora per il suo invito, nei prossimi giorni darò il mio personale e umilissimo contributo, solo il tempo necessario di approfondire bene l'argomento e scrivere righe sensate.

Colgo l'occasione per augurare anche a lei una buona domenica, cordiali saluti.

Filippo Salvioni

 

 

Caro Oreste,

scusa per il ritardo col quale rispondo. Innanzitutto ti dirò che le tue "Riflessioni" ad un primo sguardo mi sono sembrate molto interessanti e vorrei che tu mi dessi il tempo di leggerle

con calma e pensarci su. E' ormai lontano il tempo i cui ti conobbi tramite un regalo di un'amica: il tuo libro "Il Paradiso può aspettare". E' lontano anche il tempo in cui mi meravigliai molto per questo regalo perché la morte era l'ultimo dei miei pensieri, specialmente andando per monti dove tutto mi parlava della vita. Ora di morti anche attorno a me ne ho viste parecchie e l'età ti porta, quasi come una sorta di preparazione, ad attendere ciò che sarà ineluttabile. Quindi voglio leggere attentamente le tue "Riflessioni" e, parlo per me, mi piacerebbe poter dare loro lo spazio che meritano agli amici/corrispondenti. Magari se vorrai ne parleremo più avanti ma ti accenno

che su Hikr c'è anche un Forum dove, a differenza dei Forum che sono in giro, l'autore del post sottopone agli altri temi, solitamente seri, sui quali ci si confronta. Questa potrebbe essere un'idea.....ne parleremo più in là.

Per ora sappi che ho ordinato "La Farfalla sul ghiacciaio" e "L'altra montagna", visto che a Varese non erano disponibili, proprio perché vorrei capire di più le tue idee. Spero arrivino a breve.

Per ora ti auguro un buon inizio di settimana. A risentirci

Giulio Balduccini

 

 

Alpinismo a rischio. Diciamo basta con Oreste Forno a questo gioco di fantasmi!

 

“Che cosa ne pensa delle malattie mortali?”. E il tipo con prontezza: “Ah, guardi, io sono contrario”. Come il signore della celebre battuta di Marcello Marchesi, tutti noi siamo contrari alla morte. Perciò non si vede per quale ragione dovremmo chiudere un occhio se la Signora con la Falce miete vittime in montagna con la solerzia che sappiamo, specie negli ultimi tempi. Ma un conto è dirsi contrari e un altro è attivarsi perché “ci sia una montagna per la vita e non per la morte” come ha auspicato Roberto De Martin, presidente del TrentoFilmfestival che in primavera ha ospitato Oreste Forno e ne ha rilanciato l’appello agli alpinisti perché abbiano più rispetto per la vita, quella degli altri compresa.

Ma già si sapeva. L’argomento è scabroso, suscitatore di diffidenze e malumori come si può desumere dal blog di Alessandro Gogna che dal suo Osservatorio per la libertà è, legittimamente, tra i più convinti assertori del rischio in montagna, s’intende ragionato.

Dell’appello di Forno si era parlato in aprile su MountCity. Ma ora è giocoforza tornare sull’argomento prima che qualche ipocrita addetto ai lavori vi stenda sopra una pietosa cortina fumogena. Forno lo merita, prima di tutto perché, da alpinista di razza, sa che cosa vuol dire rischiare la vita in montagna. E poi perché non ha nemmeno l’aggravante di fare il giornalista di mestiere e di sproloquiare sulla montagna assassina per ragioni (?) di tiratura.

Personalmente, come rappresentante della categoria, mi schiero con l’amico Oreste. In quel quarto di secolo in cui mi sono occupato della stampa sociale del Club Alpino Italiano ne ho visti morire tanti, troppi tra gli alpinisti “che contano” dopo avere instaurato con loro un rapporto di amicizia. Se mi fossi occupato di automobilismo o motociclismo, sport considerati ad alto rischio, sarebbe stato lo stesso?

Accolgo perciò ben volentieri l’invito di Forno a martellare, scusandomi se urto la suscettibilità di qualcuno che si sente martellato. C’è bisogno di una tregua. L’alpinismo non può continuare a lungo a trasformarsi in quel gioco di fantasmi (così definito da Joe Simpson) che non appassiona più nessuno.

“Di fronte al dolore causato dall’ennesima tragedia che ha avuto come teatro il Pilone Centrale del Freney, nel Gruppo del Monte Bianco”, spiegava Forno nel documento che ha per titolo “La montagna per la vita”, “ho sentito un rabbioso bisogno di alzare ancora di più la voceSarà che di dolore ne ho già visto troppo, sarà che non concepisco più che un ambiente dove si va per Vivere con la V maiuscola diventi troppo spesso terreno di morte”.

Qualcosa si deve e si può fare, oltre ad alzare la voce e senza ricorrere a divieti. Ma che cosa? Più di dieci anni fa lo stesso Joe Simpson, autore dello straordinario best seller “La morte sospesa” (Vivalda, 1998), si è detto convinto nel “Richiamo del silenzio” (Mondadori, 2003) che “una punta acuminata che sporgesse dal volante a dieci centimetri dal petto del guidatore” sarebbe il dispositivo di sicurezza più efficace per ridurre gli incidenti sulla strada. Cinture vietate, naturalmente. “Più o meno”, ha concluso, “la stessa cosa è accaduta nell’arrampicata. Il miglioramento dei materiali e delle attrezzature concorre a rendere le salite più difficili e pericolose. E’ un circolo vizioso, magari divertente”.

Malauguratamente questo circolo vizioso si è innescato con la nascita dell’alpinismo. Come asseriva de Saussure nei “Voyages dans les Alpes”, correre un rischio porta in sé il proprio compenso: mantiene viva la “costante agitazione” del cuore. “Da quel momento”, spiega lo scrittore alpinista  inglese RobertMacFarlane (“Quando le montagne conquistarono gli uomini”, Mondadori 2005), “la ricerca del rischio, il deliberato mettersi in condizioni di provare paura divenne cosa desiderabile: un genere di lusso”.

D’accordo, il destino tende agguati tremendi anche quando il rischio non lo si va a cercare, non lo si corteggia. Si va in pensione, si crede di avere ritrovato la libertà dopo avere tanto tirato la carretta e, come racconta quel tale su Gogna blog, si è ghermiti da una tremenda malattia. D’accordissimo. Ma talvolta dalle tremende malattie se ne esce, pur tra indicibili sofferenze, con un pizzico di fortuna e  i contributi dei bravi medici. E si torna a vivere.

Rischiare la vita scalando è forse più gratificante che standosene intubati nella sala rianimazione di un ospedale? La “morte dinamica” di cui favoleggia Cesare Maestri, uno dei tanti o pochi sopravvissuti dell’alpinismo, è forse più desiderabile di una misera fine in un letto di ospedale, trafitti da cannule e sonde?

Leggo ancora nel bellissismo libro di MacFarlane che a Chamonix nella stagione alpinistica muore in media una persona al giorno. ”Ma di queste assenze non ce ne accorgiamo”, osserva.”Nei bar non si vedono posti vuoti gelosamente protetti dagli amici in lacrime, per le strade non si incontrano parenti straniti, distrutti dal dolore. Unico indizio è il rombo degli elicotteri del soccorso. Spesso si vede qualcosa penzolare sotto l’elicottero in volo. Di solito è un sacco diimmondizia; a volte un sacco che contiene un cadavere”.

Forno vorrebbe suggerire che per sentirsi vivi non è necessario rischiare di finire in quell’orrendo sacco di cui parla MacFarlane, anche se tanta gente questo inconsciamente cerca. Non si fa troppe illusioni l’amico Oreste, ma nel tracciare un primo bilancio di questa sua nuova “mission” si compiace che se ne sia parlato su Mountain blog, che Gogna abbia pubblicato l’appello nel suo autorevole blog, che Giovane Montagna annunci di pubblicare il documento sul numero di giugno facendo seguire un forum, che anche Mountain Wilderness abbia chiesto di poterlo pubblicare, e che analoghe richieste gli siano arrivate dal Cai di Vittorio Veneto, dagli Annuari di Bergamo e di Sondrio.

Forza Oreste, non ti arrendere. Siamo in tanti (o no?) a pensarla come te.

Roberto Serafin

 

 

 

Caro Oreste,

finalmente ho letto per bene le tue Riflessioni e soprattutto queste mi hanno suggerito alcuni pensieri. Vorrei riassumerli qui di seguito facendo riferimento a passi particolari del tuo scritto. Ho scritto le mie in rosso corsivo per una  migliore individuazione.

 

 

Montagna come mezzo

 

………..omissis………

La differenza sta nel fatto che nell’alpinismo l'ambizione può causare gravi rischi, perché, se si osa troppo, si corrono dei rischi che possono portare anche alla morte, cosa che purtroppo succede piuttosto spesso.

Secondo me l’ambizione è un sentimento positivo perché agisce da pungolo per la riuscita dell’individuo in qualunque campo. Assume una valenza negativa quando lascia spazio all’egoismo estremo facendo ignorare i legami e le responsabilità che si hanno.

 

 

Chi muore?

 

………..omissis………

Palanzone? Sembra incredibile, ma è successo. Si sono salvate una donna (con una gamba fratturata) e una bambina di quattro anni, perché emergevano dalla massa nevosa, mentre è andata decisamente male per il nonno della bambina, di 62 anni, deceduto qualche giorno dopo per le conseguenze.

Tutto giusto quanto dici. Vorrei aggiungere per questa categoria di persone l’elemento disattenzione, spesso sinergico con “stanchezza”. Per quanto ne so è un fattore che incide molto tra chi effettua escursioni quotate facili o di poco impegno perché la concentrazione è a livello basso contrariamente all’alpinista che è in ambiente severo ed è impegnato in una impresa difficile.

 

………..omissis………

Gli alpinisti che si spingono troppo oltre i propri limiti. È nella natura umana cercare di migliorarsi per superarsi, ma bisognerebbe saper sempre conservare un margine di sicurezza. Per esempio, con l'aiuto di una persona esperta, o di una guida.

Qui mi sento però di dire che l’alpinismo, come tutti gli altri sport, implica che con l’allenamento si innalzino i livelli di difficoltà affrontabili in accordo con le maggiori capacità che si acquisiscono e alla conseguente fiducia nei propri mezzi. Va da sé che il prudente oserà poco alla volta, poco di più, cercando di prevedere se la situazione in cui si verrà a trovare con la prossima mossa sarà affrontabile o troppo sopra le proprie abilità. Lanciarsi verso il prossimo appiglio, magari distante, magari di aspetto poco sicuro contando su una assicurazione già precaria è chiaramente un azzardo. Per contro, a volte bisogna osare un po’ di più, nel giusto, sennò ogni progresso sarebbe irrealizzabile.

 

 

 

Gli alpinisti della cima a tutti i costi.

 

………..omissis………

andando ancora più indietro nel tempo c'imbattiamo in un grande dell'alpinismo eroico, Emilio Comici, morto in Vallunga (Valgardena) durante una facile arrampicata.

Ecco la morte di Comici, per quel che ho letto mi sembra un tipico caso di distrazione o di bassa concentrazione in ambiente “facile”, almeno per lui. Personalmente ricordo la volta che allestita la mia calata in doppia su una via di III a Campo dei Fiori mi sono accorto all’ultimo momento, proprio prima di lasciarmi andare nel vuoto, che non avevo agganciato correttamente l’otto; quella calata l’avevo fatta tante volte, mi allenavo lì, ma se quella volta non mi fossi accorto dell’errore  sarei volato per 25m.

 

………..omissis………

in seguito al distacco di una parte di roccia, o di un masso, con il chiodo del rinvio; Mario Merelli, grande nome dell’Himalaya, è morto a pochi passi dalla vetta dello Scais, una montagna di casa, per un masso instabile che gli ha fatto perdere l’equilibrio. E potrei continuare…

L’imponderabile lo è purtroppo per definizione. Nulla possiamo opporgli se non la coscienza di aver approntato tutto quanto è in nostro potere per cautelarci (assicurazioni, previsione meteo, attrezzatura giusta). Per il resto….anche quando mettiamo il piede giù dal marciapiede, dopo aver scrutato a destra e a sinistra possiamo venire colpiti dal vaso della signora del primo piano.

 

 

………..omissis………

Gli alpinisti ai vertici che, volendo rimanere sul podio guadagnato duramente, ………….

Qui mi sento di dire che certa categoria di primedonne o meglio primiuomini se la cercano. Quando leggo delle strabilianti imprese di Adam Ondra, dei fratelli Huber o di gente simile non posso fare a meno di chiedermi quale “livello di autostima” possano avere; di sicuro è così alto da obnubilare il senso del pericolo e li deve fare sentire onnipotenti. L’esperienza ci insegna che esposti a rischi così alti tanti loro predecessori hanno incontrato la morte a dispetto della loro estrema abilità, forza e coraggio virtù che bisogna riconoscere loro. Come si può pensare di arrampicare su difficoltà estreme, senza assicurazione, a vista, senza conseguenze? Ho letto che ai tempi degli Hippies c’era gente che scalava a El Capitain e negli altri paradisi di roccia sotto l’effetto di droghe. Se è vero non credo sia molto dissimile da qualunque sistema di doping con la differenza che qui….chi sbaglia muore e comunque, per me, non è assolutamente sportivo anche in caso di successo. 

 

Perché si muore di più sulle grandi montagne?

 

………..omissis………

- Per il peso dello sponsor? Molti pensano che sia una delle prime cause, ma può capitare per lo più solo ad alpinisti professionisti che con le spedizioni cercano di guadagnare notevoli profitti.

Qui vorrei aggiungere la riflessione sulle spedizioni commerciali, alla moda. Vanno tanti, più o meno preparati, con parte della via preparata dall’organizzazione, quindi più facile. Però differentemente da te, da un Messner, da gente che pian piano è approdata alle alte quote, costoro non sanno come il loro fisico reagirà di fronte a tutto ciò che enumeri qui sopra. Potrebbero scoprirlo solo lassù e trovarsi in grandissime difficoltà fisiologiche: respiratorie, di resistenza, di clima, di orientamento ma anche solo psicologiche che pure lassù sono estremamente importanti. Io non ho provato nulla del genere ma dai racconti di tanti incidenti si intuisce come sia importante affrontare l’8000 con la dovuta coscienza di cosa comporta. Non basta fare l’ambientamento, tirarsi sulle corde fisse, avere il giusto piumino o i materiali migliori. Credo che quando la tua tendina viene sbatacchiata per giorni da venti a 120 km/h già questo, senza chiamare in causa la valanga o il crepaccio è sufficiente per mettere in crisi l’uomo comune abituato ad una vita a livello del mare.

 

 

Cosa significa morire?

 

………..omissis………

figli che hanno perso il papà in montagna. Non l’ho mai fatto, ma vedendo l’amore dei miei figli per me posso immaginare il loro strazio. E che dire del fatto che in futuro non avranno più un riferimento così importante? Con ciò non intendo criticare le scelte di chi poi ha perso la vita in montagna, perché non posso, né ne ho il diritto. Permettetemi però di dirne le conseguenze.

Queste riflessioni sono sacre ma, lasciami dire, non debbono essere tali da impedirci, con il giusto raziocinio e la doverosa prudenza di frequentare le montagne anche se queste possono celare improvvisi e mortali pericoli. Se lasciassimo che le paure per noi o per la ricaduta sui nostri cari vincessero laspinta che molti di noi sentono, l’attrazione che i monti esercitano sui nostri sensi….non saremmo qui a parlare di montagna. Addirittura queste riflessioni trasportate in altri settori impedirebbero persino l’esercizio di alcune professioni perché rischiose. E’ vero: il lavoro può comportare dei rischi ma ègiocoforza accettarli, l’avventura invece è una scelta e quindi potrebbe essere evitata. Non so, credo che chi ama la montagna e sfida se stesso salendola difficilmente sarebbe capace di rinunciare pur sapendo quel che rischia per se o per i suoi cari. Un’attrazione fatale, forse ma per tanti irrinunciabile.

 

La morte, un prezzo da accettare?

 

………..omissis………

Quindi mettiamola così: LA ‘PELLE’ A TUTTI I COSTI, E NON LA CIMA A TUTTI I COSTI!

Questa affermazione o altre simili mi trova completamente d’accordo. Quanto al fatto che la morte sia una brutta bestia, è vero, tutti la temiamo ma sappiamo anche come sia ineluttabile. Non con questo che si debba accettarla rassegnati questo no. Ma sapere che possiamo incontrarla per monti e che potremmo evitarla non andandoci no. D’altra parte ogni giorno assistiamo a destini crudeli che sottopongono poveri esseri ad una morte dopo agonie inenarrabili o invece all’improvviso spezzarsi di una vita per infarti, ictus o incidenti anche ai giovanissimi senza che nessuno abbia potuto mettere in essere atteggiamenti prudenti, norme di vita tali da allontanare questi eventi. Almeno l’alpinista può, come s’è detto, essere accorto, informato, tecnicamente preparato e fisicamente allenato per tentare di evitare di morire. Ma se questo dovesse accadere, beh penso che come ho scritto ad una signora che ha perso il marito in montagna, forse negli ultimi istanti di questa vita terrena gli occhi si riempiono dell’azzurro del cielo e si può credere che tra qualche attimo si salirà lassù.  

 

 

 

Il piacere di una montagna diversa

 

………..omissis………

Come me un tempo, credo che molti alpinisti non abbiano ancora gli occhi per vedere questa montagna e allora è bene dire loro che c’è e che la troveranno ad aspettarli nel giorno in cui avranno raggiunto la loro cima. Saperlo potrebbe aiutarli ad affrontare con più responsabilità le loro sfide.

Concordo con te: anche io ho capito che esistono tante montagne o meglio tanti modi di andare in montagna. Ci sono quelli per cui sali, a testa bassa, cercando di andare veloce, più in alto e guardi il cielo solo per vedere se arriva un temporale; la tua unica preoccupazione è l’ansia di arrivare presto, di battere il tempo del tuo amico o il tuo tempo della volta scorsa. Poi ci sono volte che, complice magari la compagnia di un amico meno dotato, più tranquillo ti accontenti della passeggiata con lui, della salita più alla portata di tutti e scopri l’erba, i fiori, i profumi, i colori e le sensazioni che hanno tentato di avvolgerti ma tu non te ne accorgevi teso verso la tua meta. Devo dire che però non ho mai scelto. Entrambi questi modi esercitano il loro fascino diverso su di me e senza l’amico tranquillo torno magari ad inseguire la chimera della vetta sportivamente raggiunta.

 

Giulio Balduccini

 

 

Caro Giulio, vedo se riesco a rispondere ai tuoi numerosi interventi, per i quali ti ringrazio. Prendi però le mie parole come quelle di una persona qualunque, che ha ancora bisogno di capire e di imparare. Perché le indicazioni giuste arriveranno soltanto alla fine, con il confronto di tante idee, che spero arriveranno.

Condivido la tua riflessione sull’ambizione. Che è un bene fino a quando, come dici tu, non lascia spazio all’egoismo estremo, al punto da ignorare legami e responsabilità, anche verso se stessi.

Per quanto riguarda la disattenzione, a volte è proprio che si va tranquilli, magari con la testa un po’ tra le nuvole, e quindi sconcentrati. E certamente la stanchezza fa diminuire la concentrazione, ma anche i riflessi e la forza. Quindi, credo che quando si va a fare qualcosa bisogna fare i conti con l’energia necessaria a ritornare fino in fondo. Perché se si arriva cotti in cima, la discesa può diventare un bel problema. Non per niente, molti incidenti in Himalaya avvengono durante la discesa. Ma non solo in Himalaya.

In quanto agli alpinisti che si spingono troppo oltre i propri limiti, mi riferisco in particolare a quelli che magari tentano un 8000 senza mai essere stati su un 7000 o un 6000. La progressione, come dici tu, deve essere graduale, e quindi è giusto tentare di raggiungere l’appiglio che sta sopra, purché dietro ci sia una buona base.

L’esempio di Comici, poi, è proprio per dire dove può portare una semplice distrazione, o una non sufficiente concentrazione su un terreno considerato facile. E se è successo a gente come lui, figurarsi se non può succedere alle persone più comuni. Il messaggio su cui forse bisogna insistere è che anche sul facile bisogna cercare di stare concentrati, e questo vale per chiunque. Chi non ha mai provato a inciamparsi su un sentiero apparentemente regolare?

Per quanto riguarda l’imponderabile, mi viene da pensare questo. Immagina uno che per sfuggire a ogni rischio sceglie di passare la sua vita su un isolotto (per non usare il termine della campana di vetro). Lì rischi proprio non ce ne sono. Però un giorno questo si mette all’ombra sotto l’unica pianta di cocco e… Ti lascio immaginare il finale. Anche in montagna dobbiamo accettare di poter morire, e quindi continuiamo ad andarci per il nostro bene, ma prima facciamo tutto quanto ci è possibile per la salvaguardia della pelle…

Per quanto riguarda gli alpinisti ai vertici, mi sentirei di dire questo. L’autostima può essere vista in due modi. Come dici tu, nel senso dell’onnipotenza. Ma, magari, non è proprio la mancanza di autostima a spingerli in imprese esilaranti, per le quali sono comunque fisicamente e psicologicamente all’altezza? Non è che hanno bisogno di queste imprese per dimostrare a se stessi e agli altri che valgono? Però il rischio è estremamente alto e quindi concordo che non vadano presi come esempio, e soprattutto, e qui sta il problema, che le loro gesta non vengano esaltate. Ma tu sai com’è: ad attirare sono i morti e i superman, non importa se giocano alla roulette russa, e su questo i media vanno a nozze. Da sperare che almeno da Associazioni come il CAI arrivino dei segnali diversi.

E ora il problema delle spedizioni commerciali di cui si parla tanto. È chiaro che con gente simile i rischi aumentano. Ma, in particolare, mi chiedo che soddisfazioni possano dare salite del genere. Eppure le danno, visto i soldi che uno è disposto a pagare pur di farsi accompagnare in cima all’Everest. Certo, le danno a gente come loro, di certo non a quelli come noi, e allora cosa possiamo fare se non lasciarli andare? Almeno fanno lavorare gli sherpa, che poi però muoiono. È un discorso complicato che merita profonde discussioni e che vorrei lasciare aperto per dare ad altri la possibilità di intervenire.

Per quanto riguarda le tue osservazioni al punto “Cosa significa morire”, voglio che sia chiaro che anche per me la montagna è sacra, e che va frequentata a ogni livello, in base alle proprie esigenze. Ma, e mi ripeto, stiamo attenti, alziamo di più la guardia, perché i tanti, tantissimi esempi che abbiamo (Chi muore?) ci dimostrano i rischi che corriamo. E credo che per un genitore, o addirittura un figlio, sarebbe molto più accettabile una morte che il proprio familiare non è andato a cercarsi.

“La morte, un prezzo da accettare?” Siamo ancora lì. E ancora dico, certo che andiamo in montagna! Ma andiamoci per vivere e per tornare a casa contenti. Se poi succederà di morire tra i nostri monti magari sarà anche bello. Personalmente sarei più contento sapendo di non essermela cercata. Per me e per chi mi vuole bene.

Infine, quando parlo di quell’altra montagna, so che molti, come è successo con me, la possono scoprire solo dopo un lungo e travagliato cammino. E che non possiamo dirottarli dalle loro cime su questa, perché per arrivarci serve una maturazione. Però cominciamo a dire loro che c’è, e di provare, di tanto in tanto, a darci qualche sbirciatina.

Grazie ancora. Oreste

 

L’ESPERIENZA SUL BLOG http://www.banff.it/la-montagna-per-la-vita/#comment-1766

 

Diverse opinioni sono apparsi anche su questo blog, dove Alessandro Gogna ha gentilmente ospitato il documento "La montagna per la vita". Purtroppo, l'esito non è stato dei migliori a causa di alcune persone sempre pronte ad attaccare gli interventi, alle quali, probabilmente, non interessa il fatto di dare una mano a chi va in montagna. Ne consiglio comunque la visione per sentire anche la voce di chi é contrario, ma anche per l'importanza di alcuni autorevoli interventi. 

 

Ciao Oreste, mi ero promesso di risponderti e lo faccio dopo essermi rivisto, tra le braccia di Morfeo, una esperienza in montagna che poteva essermi fatale. Premetto che ho avuto la fortuna di  non aver mai subito devastanti ricordi, solo un volo mal controllato per fuoriuscita di un chiodo a pressione al Buco del Piombo, infisso per soli 2 cm da tuo suocero e sul quale ero appeso. Però in altra occasione rischiai di cadere fino alla base dell'Antimedale a causa di una doppia precipitosa: la corda non era appaiata e rimasi appeso ad un solo capo ma aggrappandomi disperatamente ad una piantina e con il socio in alto che bloccò la corda con le forti mani riuscii a cavarmela con solo un grosso spavento. Questo successe anni fanon ricordo quanti - ma nel sogno mi è ritornato forse come ammonimento per cui mi sono preso un week-end di riflessione ed ho realizzato una grande escursione contemplativa di notevole respiro, godendomi in modo rilassato splendidi scenari simili ad alcune tue foto viste ad Albavilla. Pensando al sogno e ai tuoi richiami sulla morte in montagna mi è sembrato di intuire che le sfide estreme vengano esercitate quando si è dotati di molta energia psicofisica - la mente e lo spirito lasciano spazio all'azione e alla determinazione che, come un fiume in piena, non conoscono resistenza alcuna. Ricordo uno scritto di mezzo secolo fa nel quale l'autore (mi pare R.Robbinssosteneva che dopo tre giorni sul Capitan, forse anche per un effetto adrenalinico, si acquisisce una grandissima intuizione e sensibilità degli arti per cui le difficoltà sembrano scemare. Quando ad un certo punto della vita, vuoi per proprie esperienze vuoi per la perdita di amici, si perde progressivamente questa energia vitale - all'azione si sostituisce il pensiero, la riflessione, l'amore per la vita e quindi lo spirito si riprende lo spazio che gli è stato sottratto volando libero in contemplazioni più o meno esoteriche nella bellezza del creato. L'ho fatta un pò lunga, in sintesi: energia=azione - perdita di energia=liberazione spirituale (rinnegare la perdita d'energia porta all'autodistruzione), per giovani ben dotati è quindi molto difficile se non impossibile limitare il campo d'azione anche se come scriveva Messner ne "Il limite della vita" (curato da Gogna) è tutto relativo: "Per alcuni il limite sta in una passeggiata nelle Dolomiti, per altri nella zona di morte del Nanga Parbat". Chiudo allegando la foto di tre grandi miei miti scomparsi  e trovata casualmente sul web: Grassi l'ho conosciuto personalmente, Casarotto (che è stato con Graziano)  e Comino li ho visti in occasione di proiezioni. Ancora un saluto e buona continuazione, Giovanni Bosisio.

 

Caro Giovanni, ripercorrendo alcune delle mie prime salite in solitaria, come lo Spigolo Nord al Badile o il Cervino, quando si era poco più che ragazzi, mi ritrovo in pieno in quanto dici a proposito dei giovani. La forza fisica e mentale della giovinezza ti danno una grande padronanza, che tradotta in esuberanza ti porta ad affrontare quasi tranquillamente situazioni al limite delle tue possibilità. Però ricordo bene quando sul Badile persi per un momento la via e mi ritrovai su un tratto di lavagna verticale senza possibilità di continuare. E con le gambe che tremavano non fu facile tornare sui miei passi, ma una volta riguadagnata la via giusta continuai velocissimo fino in cima, come se niente fosse stato. Oggi so che quel giorno fui a un passo dalla morte, e con gli occhi d’oggi quanto sarebbe stato triste se la mia vita fosse finita lì! E allora penso a chi si è fermato lì, e mi dispiace per loro, e mi dico che devo fare tutto quello che posso fare per evitare che succeda ad altri. È difficile farsi ascoltare dai giovani quando sono come un fiume in piena, altro ché se concordo con te, però sento che noi che abbiamo raggiunto la maturità passando attraverso tutte le esperienze della montagna, e abbiamo gli occhi per vedere, abbiamo non solo il diritto, ma il dovere di provarci. Magari salveremo solo una vita, magari due, magari tre… Non lo sapremo mai, ma avremo, quando saremo ancora un po’ più vecchi, la grande gioia di averci provato. Ma non ci limitiamo ai giovani, perché sono ancora di più quelli che muoiono per troppa superficialità, leggerezza. Avrai sentito la cronaca di sabato scorso, 24 maggio 2014! Un morto sul Grignone, uno sul Graviasca (Val Brembana), uno sul Pasquale (Valfurva). Tre solo in Lombardia, mentre dall’Alto Adige giungeva la notizia del ritrovamento del corpo di uno sci alpinista sepolto da una valanga, e venti più lontani portavano quella di tre morti sulKangchenjunga (una donna alpinista indiana con i suoi due sherpa). Mi viene da pensare a un bollettino di guerra, e allora ancora di più mi dico che dobbiamo andare avanti!

Grazie ancora per il tuo pensiero, ciao. Oreste

 

 

Gentile Sig. Forno,

la montagna come tutte le attività umane ha delle percentuali di rischio, quanti pensano a quante persone muoiono per incidente stradale o perché fumatori, oppure perché appassionati di gare di moto, di auto o d'altro?? La frase di Bonatti "La montagna più alta è dentro di noi" e l'affermazione di Casarotto "Il mio zaino non è solo carico di materiali:
dentro ci sono la mia educazione, i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine.In montagna non porto il meglio di me stesso: porto me stesso, nel bene e nel male" racchiudono il mio concetto di montagna. Cosa voglio dire? Che abbiamo dei limiti che vanno considerati, misurati ed anche superati, sapendo però che se si tratta di raggiungere una posizione lavorativa migliore o un titolo di studio il sacrificio richiesto è la fatica, l'impegno ed anche la rinuncia totale o meno alle proprie passioni. In montagna nel sacrificio può essere compreso anche la messa in pericolo della propria vita, più o meno consapevole, ma è inconsapevole solo nel "durante" ma non nel prima o nel dopo, perché o lo capisci da solo o te lo fanno capire gli altri! E allora? Allora cominciamo intanto col capire che stiamo in un ambiente che non è quello quotidiano (già rischioso) dove i rischi aumentano e non sono sempre calcolabili. Che margine di imponderabilità ci prendiamo? Dobbiamo come dice lei parlare e martellare sulla morte in montagna?? Come pensa che vivano gli oncologi o chi si occupa solo di malati terminali, o chi lavora nei servizi funebri? Ci abitua, a tutto, per fortuna, altrimenti il genere umano non avrebbe mai progredito e avremmo vissuto come se  non ci fosse un domani. Non ci sono ricette o soluzioni, io poi sono ateo (non agnostico), quindi penso che l'educazione, la consapevolezza e il sacrificio riducano la porzione imponderabile legata all'imprevedibilità degli eventi. Poi ognuno di noi fa delle scelte, chi rischia di morire in montagna, chi di tumore perché lavora in un ambiente non adeguato che non sa, può o vuole valutare oppure per non avere fatto gli esami indispensabili, che avrebbero fatto scoprire una grave malformazione congenita. Il problema posto da Lei è "LA MONTAGNA PER LA VITA", ma la montagna è solo un aspetto del problema, che è più profondo ed è millenario "Che senso e che scopo ha la mia vita!?" Se ce l'ha? Quali sono i miei valori?.I credenti hanno una loro risposta più o meno preconfezionata e "basterebbe" essere coerenti in quello che credono, quelli come me atei non hanno risposte, fanno parte di un processo non sempre voluto nel quale possono solo sforzarsi di capire il più possibile e, se come passione hanno la montagna, fare tutto il possibile perché, alla fine dopo studio, sacrificio e allenamento, sia solo espressione di gioia e serenità, ! Doveroso è fare tutto il possibile per ridurre i rischied avere la consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni.......poi........siamo mortali!

Mi scusi, sono un po’ prolisso ma mi risulta difficile sintetizzare argomenti così delicati.

Con stima

Cordiali saluti

Amedeo Dordi

 

Grazie Amedeo (consentimi il tu che ricambierai), hai ragione, non è facile parlare di morte, un argomento tanto delicato, a meno che non si decida di rimanere sul pratico: si nasce, si vive, e a un certo punto, che non ci è dato di sapere, si muore. Si muore per malattia, sulle strade, sul lavoro, per violenza (non entro nel merito delle guerre), ecc. Si muore anche in montagna. E d’altra parte la morte è la nostra unica certezza che però, indipendentemente da fedi o religioni, tutti cerchiamo di spingere il più possibile in là (chiaramente a parte certi casi). Sei d’accordo? Ed ecco allora che si ricorre alla ricerca per sconfiggere malattie come il cancro, alle regole, all’educazione e alla tecnologia per ridurre gli incidenti sulle strade e sul lavoro, o alle leggi per tutelare l’incolumità delle persone. Però, in questa sede a noi queste cose non interessano, a noi interessa la montagna. E se guardiamo bene, per fortuna vediamo che anche con la montagna si è fatto e si sta facendo tanto. Con il Club Alpino, per esempio, che educa e prepara le persone che si avvicinano per la prima volta alla montagna, o che la vogliono frequentare a un livello più elevato; con il Soccorso Alpino che di vite ne ha già salvate veramente tante; con altre associazioni, come Giovane Montagna, molto attenta anche agli aspetti etici e culturali. Però, nonostante si faccia, a parere mio si muore ancora troppo. E lo dico di fronte a certe morti non inevitabili che continuano a ripetersi. E allora mi chiedo, e questo è il motivo per cui ho dato il via a questo impegno: “Non è che ci sfugge qualche cosa e magari si può fare un po’ di più di quello che facciamo già?” Tutto qui. E allora il mio documento iniziale è solo una base da cui partire, mentre il parlarne è già un primo passo. Per il quale ti ringrazio. Ciao.

Oreste

 

Ecco, io ho fatto la mia parte.

Puoi leggere qui: http://www.hikr.org/post80766.html

Vedremo che tipo di commenti arriveranno ma soprattutto mi auguro che la gente venga sul tuo sito e partecipi lì alla discussione perché lì hai modo di rispondere, eventualmente. Ciao!

Giulio

 

Grazie Giulio per l’aiuto a far giungere a più persone il nostro appello. Speriamo che qualche appassionato di montagna capiti anche lì. Ciao.

Oreste

 

Caro Oreste, proprio perché crediamo in quanto stai facendo, tu e le tante persone che ti seguono, abbiamo pensato di mandarti questo nostro piccolo contributo.

Come genitori ci sentiamo coinvolti in una missione grande, forse siamo chiamati a un progetto che solo Dio sa.

Il maggiore dei nostri figli, di 25 anni, ama fortemente la montagna e proprio in questi giorni è impegnato con una spedizione in Perù. A trasmettere a lui e agli altri figli questa passione, se così la possiamo chiamare, siamo stati mio marito ed io, che ancora la sentiamo fortemente. Già in seconda media ci aveva chiesto se oltre allo sci poteva ampliare le sue conoscenze con un corso d'arrampicata. Da subito abbiamo pensato che fosse solo per conoscere più da vicino le rocce, invece è stato l'inizio delle cordate, delle arrampicate e dello sci ripido. Con il repertorio e le difficoltà che ogni volta aumentavano.

Fin da subito abbiamo accettato questa scelta sportiva, ma allo stesso tempo aumentavano i dubbi e soprattutto ci trovavamo a valutare ogni tipo di rischio a cui andava incontro. Così, ora, a ogni escursione ci ritroviamo a casa ad aspettare un messaggio, una chiamata, e puoi ben immaginare quale musica può suonare il battito del cuore in questi momenti d'attesa. Soprattutto ora che da così lontano i contatti sono pochi.

Certo, quando negli occhi di nostro figlio vediamo la soddisfazione di essere riuscito nel suo intento di arrivare in alto, come se la conquista di una cima in arrampicata o una salita con le pelli, fosse un tutt'uno con il suo corpo, proviamo forti sentimenti, condividiamo attimi speciali, forti emozioni. Sapendo anche che la montagna libera lo spirito e l'anima, aiuta a crescere nei sentimenti, a scovare nel profondo i pensieri più liberi. Ma pensiamo anche che andare in montagna non deve ridursi alla competizione, all’arrivismo, alla sponsorizzazione delle attrezzature tecniche, perché i valori più alti della vita sono la vita stessa. Rispettiamo quindi la montagna, affrontandola con cura e consapevolezza, e rispetteremo la nostra vita, non la sciuperemo. E come già ci siamo rivolti a nostro figlio con queste parole, vogliamo farlo anche con gli altri alpinisti della sua età, quelli ‘malati di montagna’ che non possono fare a meno di scalare. Per dire loro di non essere mai superficiali, di considerare il rischio che è sempre lì a un passo, di pensare alle conseguenze prima di scegliere un passaggio, o di compiere una traversata, o di superare un crepaccio; di pensare all’imprevisto, perché può bastare un cambiamento improvviso del tempo per trasformare una bella scalata in tragedia. E quindi diciamo di rinunciare di fronte all’incertezza, perché la montagna è sempre lì e ci si può tornare anche un’altra volta.

Come dice il signor Giovanni, forse predicando non si ottiene nulla, ma sicuramente il condividere le esperienze di nostro figlio ci aiuta ad accettare e a capire la sua personalità, e ci sprona a parlare con lui, e a indirizzarlo alla prudenza. E se anche questo non ci priverà dei momenti di apprensione, ci conforta il fatto che la vita e la montagna sono doni preziosi di Dio, che, come tutti i regali, danno felicità. Una felicità che condividiamo con nostro figlio al ritorno di ogni sua salita. Anche se alla partenza di quella successiva siamo di nuovo presi dal timore... per la sua vita.

Ida e Danilo

 

Cara Ida, caro Danilo, come capisco la vostra situazione! La capisco perché so cosa vuol dire essere alpinista e perché sono padre di due figli, che sono la mia vita. E il brutto è che se un giorno mi dovessero chiedere di andare non potrei dire loro ‘no’. Come voi non potete dirlo a vostro figlio, perché quando il richiamo è così forte è impossibile rinunciare. Forse, il compito ideale per un genitore sarebbe quello di fare in modo che questo richiamo non nasca mai, e allora si avrebbe un figlio che gioisce di una montagna più accessibile, che dà comunque tanto e permette di tornare a casa per godere anche degli altri aspetti della vita. Può essere possibile? Forse sì. Certo, in questo caso non provereste quell’orgoglio che provate alla fine di un’importante impresa, ma nemmeno l’ansia, che può anche diventare angoscia, di quando parte ed è sulla montagna. Credo si debba mirare a questo, e un mezzo può essere quel ‘martellare’ di cui parlo e che pare abbia sollevato qualche dubbio. Martellare vuol dire far riflettere il più possibile, senza perdere nessuna occasione, perché se è facile dimenticare la morte di un compagno figurarsi per i consigli di una mamma o di un papà. Senza paura di creare dei ‘castrati’, perché sono certo che da grandi apprezzeranno molto quanto abbiamo fatto.

Vi ho risposto con quanto mi è venuto in mente, ma siccome l’argomento è vasto è probabile che non sia stato esaustivo. Confido allora sulle persone che ci seguono, invitandoli a intervenire con le loro osservazioni. Intanto però siate sereni e affidatevi alla serietà che avrete trasmesso a vostro figlio, a cui vanno tutti i miei auguri.

Oreste

 

 

30 maggio 2014. Gli alpinisti Matteo Tagliabue (27 anni) e Enrico Broggi (29 anni) scompaiono durante la salita all’Alpamayo, in Perù.

31 maggio 2014. Lo sci alpinista Nicola Bertamini, 42 anni, di Arco, muore sul Sass Pordoi (Dolomiti).

 

1 giugno 2014. Marco Iacomino, di 36 anni, muore per caduta sul Monte Peller, tra la Val di Non e la Val di Sole.

1 giugno 2014. Xx xx Alpinista italiano di 35 anni muore sul Piz Morterash, sul versante svizzero del Gruppo del Bernina.

 

 

 

 

 

Ciao Oreste, siamo qui a condividere l'ennesima tragedia della montagna che si è portata via due giovani vite: Matteo ed Enrico, amici e compagni di salita di mio figlio Giacomo, sull’AlpamayoTe ne parlavo nei giorni scorsi. È un disastro infinito, disastro fisico, mentale psicologico: ogni attimo sembra lungo un'eternità. Si incrociano gli sguardi, si ride, si piange, si collabora per una speranza vana e poi ti arriva la doppia mazzata nel cuore quando ritrovano chi più ami. Genitori che danno la vita, donano la vita, lasciano volare alto lo spirito di chi apprezza la montagna, per poi raccogliere quel poco che resta. Vorresti donare tutto, ma quel tutto non lo riesci a dare. Sulla strada della vita ognuno di noi cammina a fianco del suo compagno, e quando pensi di essere nel pieno delle tue forze fisiche e dai il massimo per la conquista, ti ritrovi con la sconfitta. Personalmente penso che chi ha passioni cosi forti è perché dentro di sé ha una grande luce interiore che lo porta sempre più in alto.

Questa volta voglio parlarti di Matteo mio figlioccio, per così dire, amico di mio figlio, grande atleta, molte conquiste, una personalità molto particolare sì, ma non per mettersi in mostra, grande talento e grande preparazione. Certo che il destino e la fatalità ha voluto che Matteo finisse qui i suoi giorni e i suoi sogni. Perché?... Tutti si domandano, la notizia fa scalpore, le voci iniziano ad allungarsi, la matassa del filo avvolge tutti e intercetta ogni persona grande e piccola, i sentimenti ruotano in tondo, ma mai ritornerà il volto e la personalità splendida di Matteo. Lo chiamavo ravanello perché mi piaceva chiamarlo così e coglievo nei suoi occhi che nutriva molto affetto per me... Piango e rimpiango i nostri momenti piccoli ma intensi, poi la disperazione mi avvolge, tutto cambia colore, i colori di ieri non sono più uguali a quelli di oggi, la forma delle idee cambia. Tutto si riavvolge... Provo forti sensi di colpa… So che ora devo anche accogliere a braccia aperte mio figlio Giacomo, che porta con sé una conquista molto amara, pagata a duro prezzo. Questa volta è veramente difficile...

Ida

 

Cara Ida, è un momento veramente triste. E se lo è per te che nutrivi affetto per Matteo, immagina i suoi genitori e quelli di Enrico. Ma la cosa peggiore mi sembra la loro vita finita troppo in fretta. Chissà, forse c’è un disegno divino e loro hanno terminato il compito per cui erano stati mandati su questa terra. Crediamo che sia così, e ora pensiamoli felici in quel mondo dove non c’è più morte. Ciao.

Oreste 

 

 

7 giugno 2014. L’escursionista Marco Signorelli, di 44 anni, precipita in un dirupo mentre percorre un tratto di sentiero innevato in Alta Valle Spluga (Lago Emet).

 

 

8 giugno 2014. L’alpinista Riccardo Aita, di 55 anni, muore per scivolata sul Jof Fuart, nelle Alpi Giulie.

 

Ciao Oreste, nei momenti liberi leggo e rileggo alcuni punti di vista nella tua pagina di riflessioni. Come tu sai io non sono un'alpinista e non conosco i pericoli delle grandi montagne, leggo, penso e non mi permetto di esprimere opinioni in merito.

Non sono un credente e forse troppo logico, pragmatico e razionale per credere, così come ritengo baggianate le parole dei preti in chiesa, tanto da non sopportarle, ti dirò neanche al funerale di mia moglie sono riuscito a rimanere in chiesa a sentire storie sui disegni di Dio e sul suo amore ecc., e come dici tu: "...Chissà, forse c’è un disegno divino e loro hanno terminato il compito per cui erano stati mandati su questa terra. Crediamo che sia così, e ora pensiamoli felici in quel mondo dove non c’è più morte...", per me non esiste niente dopo.

Però mi meraviglia che nessuno si sia finora espresso controcorrente. Anni fa, una serie di articoli sullo stesso argomento erano usciti sulla "rivista della montagna- 7-8 e segg./1981" a firma di Livio Siro e Silvia Metzeltin con una serie di risposte di tanti lettori ed alpinisti, il tutto stimolato dall'uscita del libro di Messner: "il limite della vita".

Si dovrebbe tener presente che la vita non è solo rose e fiori, io penso che l'attaccamento alla vita sia ristretto solo a chi dalla vita ha opportunità e realizzazioni, c'è anche chi dalla vita ha avuto solo delusioni...  non tutti hanno un buon lavoro, possono dedicarsi alle proprie passioni, hanno una compagna o una famiglia o un minimo di felicità... e non sempre val la pena di essere vissuta, tante volte questa ti mette con le spalle al muro, poi quando non ha più niente da offrirti, oppure non hai più niente da perdere non è forse meglio morire su di una montagna piuttosto che lasciarsi vivere addosso una vecchiaia di limitazioni, umiliazioni o di ricordi? E' LA QUALITA' DELLA VITA CHE CONTA E LA DURATA NON AGGIUNGE NULLA DI PIU'.    

Io spero, io vorrei, io cercherò di morire su qualche sentiero o nevaio o sperduto antro, non appena la vita non sarà più degna. (ricordi i versi d'introduzione della mia guida?). E' solo una serie di punti di vista, scusami tanto. Bruno

 

15 giugno 2014. L'alpinista austriaco E. F., di 24 anni, muore per caduta sulla Punta Fiames (Pomagagnon). 

16 giugno 2014. L'escursionista Stefano Beltrame, di 47 anni, muore per caduta sul Monte Plauris (Prealpi Giulie). 

22 giugno 2014. L'alpinista Adriano Porcellana, di 62 anni, muore in seguito al cedimento di un appiglio sulla Cima Busazza (Presanella). 

22 giugno 2014. L'escursionista Pier Giorgio Andrea Tedioli, di 67 anni, muore per caduta in discesa dal Gran Sasso. 

30 giugno 2014. L'alpinista Nicola Martelli, di 24 anni, muore in seguito a maltempo sullo Scerscen, nei pressi della Punta Marinelli (Valmalenco). 

3 luglio 2014. L'escursionista bergamasco Giuseppe Musitelli, di 66 anni, muore per caduta nei pressi della cima del Fop (Parre - BG).

6 luglio 2014. Gli escursionisti Lino Pozzoli (69 anni) e Valeria Nunzi (54 anni), muoiono per caduta sul Pizzaccio, in Valchiavenna. All'origine della caduta forse una scarica di sassi.

6 luglio 2014. L'escursionista Antonio Rasera, di 53 anni, muore cadendo all'uscita della ferrata sul Cimon de la Pala.

6 luglio 2014. Il vicentino Vittorio Corà, 53 anni, tra i fondatori di ‘Cime di Pace’, muore scivolando da un sentiero nei pressi di Rotzo (VI).

7 luglio 2014. Anton Wieser, di 55 anni, muore durante un’escursione sul Monte Macaion.

9 luglio 2014. La guida alpina Ferdinando Rollando scompare con il cliente sedicenne Jassim Mazouni durante una salita sul Monte Bianco.

20 luglio 2014. Giulia Darman, 64 anni, muore cadendo sulle Mesules, nel Gruppo del Sella. 

 

La rivista di agosto del Club Alpino Italiano ha dato visibilità al tema con un'intervista a Forno e un'autorevole intervento di Roberto De Martin. La rivista di giugno di Giovane Montagna ha invece pubblicato per intero il testo "La montagna per la vita", preceduto da un importante editoriale di Giovanni Padovani. 

13 agosto 2014. Sei alpinisti francesi morti durante la salita all'Aiguille Argentiere, nel Gruppo del Monte Bianco.

27 agosto 2014. Due escursionisti tedeschi, marito e moglie, di 60 e 54 anni, morti per scivolata su neve e ghiaccio nel Gruppo del Disgrazia.

31 agosto 2014. Gli alpinisti Alberto Peruffo, 51 anni, Giuseppe Ravanelli, 46 anni, Giuseppe Gritti, 46 anni, e Mauro Mandelli hanno perso la vita precipitando sul Disgrazia.

 

Ciao Oreste,

colgo l’occasione per salutarti; non sono certo che tu avessi ricevuto la mia ultima mail dato che ho dimenticato di richiederne ricevuta (fammi sapere) ma ora ti scrivo in merito a quanto ti sta a cuore: il Riflettiamo.... 

Mi riferisco all’ultimo incidente elencato, quello che si è portato via ben quattro alpinisti. Ebbene, caso vuole che la persona che mi ha insegnato quel poco che so di alpinismo sia proprio colui che, assieme ad una ragazza faceva parte del gruppo e che si è salvato. Erano tutti esperti e il mio amico aveva già salito varie volte il Disgrazia. Forse un presentimento della ragazza che ha deciso di rinunciare a proseguire la scalata viste le condizioni poco felici e la decisione di accompagnarla in basso hanno salvato i due. Durante la discesa hanno visto il volo, intuito che i quattro stavano scivolando a pazza velocità sulla ripida superficie di ghiaccio verso un salto su un seracco. Avvisati a fatica i soccorsi per la difficoltà di avere segnale telefonico, portata la giovane in una zona più sicura, il mio amico è tornato a cercarli e li ha trovati. Erano stati fermati da una grande roccia, prima del salto finale. Tre erano già deceduti, il quarto gli è morto tra le braccia dopo più di un’ora di spasmodica attesa dei soccorsi. Il mio amico è rimasto davvero toccato da quanto successo e non so se e quando si riprenderà, se e come tornerà a frequentare le cime. Ogni volta che vede dei ragazzi non può fare a meno di pensare ai figli dei suoi sfortunati compagni di cordata.

Ascoltare il racconto dalle sue labbra è stato come aver un poco vissuto anche io questa terribile sventura e non posso fare a meno di pensarci.

Ecco, tutto qui; volevo dare solo una testimonianza di riflessione in più ben sapendo che dopo esserci soffermati a pensare molti di noi ripartiranno per le vette perchè il richiamo è comunque ammaliatore come lo era il canto delle sirene di Ulisse. Che dire? Speriamo almeno che il pensiero ci ispiri una maggiore prudenza e responsabilità.

Ciao

Giulio

 

 

L'argomento sulla Montagna per la vota è stato trattato a Lecco durante il Convegno XIX Delegazione Lariana nel cinquantesimo di fondazione, tenutosi presso la sala Confindustria di via Caprera 4. L'assemblea ha dimostrato un notevole interesse.

 

Dopo l'incidente del 31 agosto sul Disgrazia ho deciso di non riportare più le vittime della montagna, per non fare di questa rubrica un necrologo. Tuttavia, oggi, in una giornata di fine febbraio 2015, ho deciso di riportare i dati fornitimi gentilmente dal Soccorso Alpino Lariano per quanto riguarda il numero degli incidenti mortali solo sulle montagne della Lombardia, nell'anno 2014. I morti sono stati 40 tra alpinismo, arrampicata, scialpinismo ed escursionismo. Non sono pochi, considerando l'alto numero di interventi del Soccorso Alpino che ha permesso di evitare un numero altrimenti ben più alto di decessi. Nel momento in cui mi giungeranno i dati a livello nazionale del Soccorso Alpino pubblicherò anche quelli, augurandomi che quest'anno ne succedano di meno. Oreste Forno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

       


 

 

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